Malgrado la sospensione delle mobilitazioni proclamata dal Comité del paro e la rimozione di quasi tutti i blocchi stradali, le proteste, in Colombia, non sono ancora cessate. E neppure la violenza. A farne le spese sono stati il 23enne Santiago Ochoa, la cui testa mozzata è stata rinvenuta il 19 giugno in una borsa a Tuluá, nel Valle del Cauca, e il 16enne Kevin García, il cui corpo smembrato è stato scoperto il 20 giugno in un sacco a La Virginia, nel dipartimento di Risaralda. Ma anche, a Bogotà, Jaime Fandiño, 33 anni, raggiunto al petto il 21 giugno da una granata lacrimogena, e Cristian David Castillo, 23 anni, colpito alla testa, il giorno successivo, da un oggetto contundente.

Sale così a 83, secondo la Campagna Defender la Libertad, il numero di civili uccisi, 27 dei quali sicuramente per mano delle forze dell’ordine, mentre sono quasi 1.700 le persone ferite dalla polizia, dagli agenti dell’Esmad e da civili armati non identificati. 106, invece, i casi registrati di violenza di genere, di cui 23 relativi ad abusi sessuali, secondo il rapporto presentato alla Commissione interamericana per i diritti umani da un gruppo di organizzazioni, tra cui la Ruta pacífica de las mujeres, una rete femminista e pacifista attiva da molti anni nel paese.

Una rete a cui si deve l’importante documento La verità delle donne vittime del conflitto armato in Colombia (uscito anche da noi, nel 2020, a cura della Rete italiana delle Donne in nero), frutto di tre anni di indagine e di raccolta delle testimonianze di oltre mille donne – meticce, afrodiscendenti, indigene e di altre identità etniche, di differenti età e luoghi di provenienza – vittime del conflitto che per più di cinquant’anni ha insanguinato la Colombia. A un’attivista della rete, Clara Mazo López, abbiamo chiesto un’opinione sulla situazione attuale nel Paese.

Qual è stato il contributo delle donne alla rivolta sociale?
Le donne hanno contribuito alla rivolta al pari degli uomini. Del resto, le necessità e la precarietà che si vivono in Colombia le condividiamo tutti. Siamo noi donne, però, a portare sulle nostre spalle la responsabilità di garantire un sostegno emotivo e fisico alle famiglie in mezzo alla povertà, alla fame e alla disuguaglianza cresciute a dismisura con la pandemia o, meglio, diventate visibili con essa. Non dimentichiamo che in Colombia, uno dei paesi più diseguali al mondo, le classi alte preferiscono chiudere occhi e orecchie di fronte alla situazione, per poter continuare a giustificare la loro indolenza. Anche noi donne siamo in prima linea, non solo attraverso il gruppo delle “mamme della prima linea”, ma come lottatrici creative impegnate a dar vita, con le nostre espressioni simboliche ed estetiche, a nuove modalità di protesta pacifica. Abituate a politicizzare la vita quotidiana, i lavori domestici e di cura, le donne organizzano i pasti comunitari per nutrire la forza della lotta, alimentando quanti scendono in strada perché nelle loro case manca il cibo. Sono molti ad aver detto pubblicamente di non aver mai mangiato tanto bene come dall’inizio della rivolta. E come donne schierate contro la guerra, la militarizzazione della vita, dei corpi e dei territori, proclamiamo che «non abbiamo partorito figli e figlie per la guerra», che «è meglio avere paura che smettere di vivere per paura». Un grido ora condiviso da moltitudini che scendono in strada come un fiume di resistenza pacifica.

Che pensa la Ruta pacífica de las mujeres sulla sospensione delle manifestazioni da parte del Comité del Paro?
Le mobilitazioni non sono cessate. Al contrario, proseguono quotidianamente nei quartieri popolari. Il Comité del Paro teme un logoramento delle proteste e opta per manifestazioni intermittenti, tanto più considerando che da parte del governo non esiste alcuna volontà di ascolto e di dialogo. I giovani e le giovani, invece, non vogliono fermarsi. Dicono che in casa non hanno nulla da fare, che non ci sono risorse, che c’è solo fame. Dicono di essere morti in vita all’interno delle loro case e dei loro quartieri, e che preferiscono morire in strada, esprimendo con i loro canti, la loro musica, la loro arte ciò che stanno vivendo. Non temono neppure il Covid, perché per loro la pandemia della povertà, della guerra, della militarizzazione, delle scomparse e degli omicidi dei giovani è una malattia ben più grave di un virus.

Considerando il fallimento dei negoziati con il governo, ritenete che sia stato un errore dialogare con Duque?
Non è mai un errore tentare la via del dialogo come prima soluzione. Il problema è che il governo è espressione delle forze che non hanno mai accettato gli accordi di pace, essendo esclusivamente impegnate a difendere gli interessi legati alla guerra, ai massacri, al furto delle terre dei contadini, allo scopo di appropriarsi di territori strategici per le loro ricchezze ambientali e naturali. È stato il governo a chiudere al dialogo, non solo rifiutandosi di negoziare con il Comité del Paro, ma invalidando anche i negoziati condotti nei territori. Da questo governo ci si può attendere solo trappole, come lo è anche la sua propaganda sulle opportunità di studiare gratuitamente o su presunte fonti di lavoro per i giovani: nient’altro che strategie elettorali per recuperare consensi illudendo la popolazione.

Qual è ora l’obiettivo delle proteste?
Gli obiettivi non sono cambiati. E possono riassumersi nella creazione di un nuovo patto sociale, simile a quello costruito nel 1991 con la nuova Costituzione. In questo nuovo patto sociale si richiedono trasformazioni di fondo a livello di educazione, di giustizia, di salute, di sicurezza. In termini economici è necessario garantire un reddito di base permanente ai settori più impoveriti e generare posti di lavoro per la popolazione disoccupata e indifesa.

Con «La verità delle donne», la Ruta pacífica de las mujeres ha denunciato la violenza esercitata contro di esse durante il conflitto armato. Qual è ora la vostra risposta alla violenza contro i manifestanti?
Le violenze degli attori armati non hanno fatto che autorizzare la pratica e l’esercizio permanente della violenza in tutta la società, anche durante le mobilitazioni sociali, legittimandola come maniera di affrontare e liquidare i cosiddetti “nemici”. Così, la paura, gli omicidi, le scomparse, gli abusi sessuali, le lesioni oculari, la criminalizzazione della protesta sono diventati una strategia per neutralizzare e paralizzare la rivolta sociale. Per tutto questo è fondamentale, per noi donne pacifiste, smascherare la cultura della guerra e del militarismo, riconvertendola alla difesa e al rispetto dei diritti umani.

La rivolta ha ottenuto diversi successi, ma ora il governo sembra aver recuperato il controllo della situazione. Bisognerà attendere le prossime elezioni per sconfiggere l’uribismo?
Mai aspettare, bisogna sempre lottare. In Colombia stiamo tentando di liberarci dall’uribismo fin da quando abbiamo votato per l’ex presidente Santos perché difendeva gli accordi di pace. Non abbiamo fatto altro che votare per chi diceva di opporsi a Uribe. L’uribismo però non è una persona, non è un partito. È una mentalità, un modo di essere e di agire assorbito dalla cultura colombiana. È gente di tutte le fasce sociali a credere che la guerra sia un valore, che l’autoritarismo sia un valore, che le armi siano un valore. È fondamentale che Uribe paghi per tutti i suoi crimini. Ma anche che la giustizia comprata e venduta, che le persone comprate e vendute a questi principi vengano trasformate da modalità e pratiche che non si lascino comprare e vendere, ma siano mirate alla verità, alla giustizia e al risarcimento delle vittime, alla costruzione di cammini in difesa della vita. Non credo che questo possa avvenire con delle elezioni. Ma credo che si possa cominciare a cambiare con governi disposti a difendere i diritti umani, le diversità di genere, sessuali, etniche, generazionali e culturali di questo paese.