Sono ormai cinque i giorni di mobilitazione ininterrotta che hanno portato il popolo colombiano a occupare le piazze e le strade delle principali città del Paese. Ad annunciare il proseguimento del Paro è la CUT, la centrale sindacale più grande della Colombia: «Dopo il grande successo dello sciopero nazionale, il governo di Duque non ha risolto nessuna delle problematiche che ci hanno fatto scendere in piazza».

LO SCIOPERO iniziato giovedì 21 novembre, convocato da oltre 50 sigle sindacali e sostenuto da organizzazioni studentesche, ambientaliste, indigene, femministe e Lgbtq, è stato indetto contro il cosiddetto paquetazo, un insieme di riforme neoliberali dirette, tra le altre cose, a privatizzare le pensioni e a ridurre il salario minimo. A questo si aggiunge la denuncia dei 153 omicidi tra le popolazioni indigene dall’inizio del mandato di Duque. Su queste rivendicazioni si sono unite le organizzazioni studentesche, che denunciano la mancanza di fondi per l’educazione pubblica. A questo va aggiunta l’ondata di profonda indignazione che ha suscitato il bombardamento di un presunto centro di addestramento guerrigliero nella zona sud-occidentale di Caquetá, che è costato la vita a 13 persone, tra cui 8 minori, e che ha costretto l’ex ministro della Difesa, Guillermo Botero, a dimettersi lo scorso 6 novembre.

CENTINAIA DI MIGLIAIA di manifestanti giovedì sono scesi in strada in tutto il paese, da Cartagena a Cali, da Bogotà a Medellin fino a Valle del Cauca. La sera stessa i manifestanti sono tornati in strada per dare vita a un cacerolazo. Rompere il silenzio con pentole e mestoli è stata la risposta al clima di paura generato dal governo e dalla repressione della polizia: nella città di Cali si è decretato immediatamente il coprifuoco, mentre il ministro della Difesa confermava la morte di tre manifestanti e il ferimento di 273 persone durante le proteste.

IL GIORNO SEGUENTE, venerdì 22, il coprifuoco è stato decretato anche a Bogotà. La polizia ha cominciato presto a lanciare gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti in piazza Bolivar, dove erano riunite migliaia di persone. In diverse città ci sono stati episodi di vandalismo e furti ai supermercati: «La polizia non interviene – ci ha raccontato al telefono Daniele, cooperante internazionale, con sottofondo di cori e rumori di pentole – e allo stesso tempo circolano notizie false e allarmanti che contribuiscono a diffondere la paura, ad aumentare la xenofobia contro i migranti venezuelani e la violenza tra cittadini».

Il presidente Duque ha rilasciato poche dichiarazioni condannando gli episodi di violenza, mentre ha abilitato i sindaci a decretare il coprifuoco, generando un clima di terrore perfettamente in linea con le campagne d’odio che caratterizzano il suo governo. Un clima di tensione che, nei giorni precedenti allo sciopero, è stato alimentato dalla chiusura delle frontiere con il Venezuela e dalla mobilitazione dell’esercito a sostegno delle pattuglie di polizia.

KAREN VANEGAS, AVVOCATA e attivista per i diritti umani del Congreso de los Pueblos, ci aveva raccontato, alla vigilia del Paro Nacional: «Si respira un clima di persecuzione, con irruzioni e perquisizioni arbitrarie ai leader e alle leader che stanno organizzando lo sciopero. Il governo nazionale ha autorizzato la militarizzazione dei centri urbani del Paese. Questa manovra sta facendo preoccupare i difensori dei diritti umani perché potrebbe portare all’utilizzo della forza, anche letale, contro la popolazione civile». Secondo Karen «il popolo colombiano vive un periodo di indignazione, è stanco di una classe dirigente che controlla la società usando la persecuzione, gli omicidi e infrangendo gli accordi di pace».

Proprio la violenza dello Stato è ciò che sta portando le proteste ad estendersi. Oggi, 26 novembre, il comitato nazionale che coordina lo sciopero si riunirà per decidere come proseguire con le mobilitazioni. Il 1 dicembre, invece, si terrà un cacerolazo in diversi paesi dell’America Latina per cercare di unire in un’onda solidale le lotte che sono in corso anche in Cile, Ecuador, Bolivia e Haiti, sfidando la repressione dei governi neoliberisti. Perché, come era scritto sul cartello portato in piazza da una manifestante colombiana: «Ci hanno rubato tutto, anche la paura».