Anche la storia è guardata con sospetto dai recenti e accaniti deformatori della scuola, ridotta a banale coordinata spazio temporale con la geografia. Allora dalla storia si cominci, dal 1923, anno già reso plumbeo dal fascismo e in cui, tuttavia, la storia dell’arte faceva il suo ingresso nella scuola italiana anche grazie all’impegno di grandissimi nomi quali Adolfo Venturi e Roberto Longhi.

Quest’ultimo, senza passare per umilianti quiz improvvisati e sbagliati, aveva insegnato la materia ancora non definitivamente immessa nel piano scolastico e nel 1914, per i suoi allievi maturandi dei licei romani Tasso e Visconti, aveva scritto una piccola dispensa tanto per capire di cosa si stesse ragionando, la Breve ma veridica storia della pittura italiana, ancora oggi testo di straordinaria pregnanza.
Toccò poi a Mario Martinozzi, negli anni ’30, inaugurare una vera didattica della materia che alternava quelle che oggi si dicono lezioni frontali con sopralluoghi, visite e ciò che intere generazioni per decenni hanno chiamato «gite», tutto destinato alla visione diretta delle opere d’arte e dei monumenti. Una didattica che invitava ragazze e ragazzi a mettere alla prova ciò che avevano appreso con la fattualità delle opere, ma che già si scontrava con l’esiguità di quell’ora settimanale dedicata alla materia.

Si dovette arrivare agli anni ’90 e al Progetto Brocca (1988-1992) quando furono aumentate le ore destinate alla materia che cominciava a essere studiata fin dalla prima classe superiore. Poche ore, ma comunque l’Italia è stata fino a poco tempo fa l’unico Paese al mondo dove lo studio della storia dell’arte risultava obbligatorio in quasi tutti gli indirizzi. Poi è arrivata Gelmini e la materia è stata eliminata dagli indirizzi professionali (compreso l’Istituto per il Turismo), ridotta nell’istruzione tecnica, sono rimaste le due ore nei licei ma riportate al solo triennio. Nel presentare la legge 2015-107, quel danno chiamato fantasiosamente «La Buona Scuola», la ministra Giannini disse che la storia dell’arte sarebbe stata risarcita di quella svista. Falso. Innanzitutto la storia dell’arte diventa genericamente «arte», tanto per aggravare quel processo di riduzione delle materie storiche mai come ora indispensabili a generazioni che, in virtù dell’avanzamento tecnologico, perdono il senso dell’assommarsi nei fenomeni culturali di simultaneità e diacronicità. Questa non meglio identificata «arte» viene inserita in una altrettanto vaga «Area Umanistica» senza alcuna specificità né di insegnamento, né di apprendimento e rientra in «obiettivi nazionali che le scuole sono tenute a osservare nella determinazione del proprio fabbisogno e nella definizione della programmazione dell’offerta formativa» (art.2, c.3).

Per chiarire: la materia esce definitivamente dalla curricularità e ogni scuola potrà, in base alla propria autonomia, decidere se inserirla o meno nel famigerato Pof. Nell’ottica di un diabolico collegato scuola/ mondo del lavoro la storia dell’arte non serve davvero a nulla. Secondo il progetto che arriva al culmine con la 107, la scuola non deve formare individui criticamente capaci di organizzare il loro pensiero, ma individui competenti dove competenza va a coincidere con sapere acritico e con una immediata quantificazione della conoscenza: un tipo di quantificazione che mai servirà ad essere agenti nel mondo del lavoro.

In questa ottica, la storia dell’arte non serve, anzi è pericolosa perché insegna ai ragazzi la relatività del concetto di realtà, L’arte, in qualunque suo momento e manifestazione, svela e dichiara che quel che si vede non è la realtà, ma un punto di vista di quella. Fornisce senso critico per riconoscere che anche ciò che si presenta come verità, anche quando non lo fa proditoriamente, molto più di frequente è solo un punto di vista e come tale può essere accettato o respinto. Infine, a cosa può servire una materia che fin da Aristotele si è pensata indispensabile per un buon cittadino? Un cittadino che intende il valore di un’opera d’arte, di un monumento, di un manoscritto sarà capace di stabilire il nesso che c’è tra oggetto artistico e territorio, e per cui la tutela di quei beni, ma soprattutto del paesaggio che li contiene, sarà un elemento di civiltà e di autotutela. L’attacco alla Costituzione passa anche attraverso lo svuotamento didattico e pedagogico dell’articolo 9.