Jihad contro gli islamisti. Un posto dove Al Qaeda è più debole. Questi i modi – molto diversi – con cui i due presidenti alleati, l’iracheno Maliki e l’americano Obama, descrivono l’Iraq del 2014. Un Paese dove il numero di civili uccisi ogni settimana tocca le vette degli anni dell’occupazione a stelle e strisce. Oltre 4.000 dall’inizio dell’anno, una carneficina figlia di attacchi terroristici e scontri tra governo e milizie. Solo mercoledì 74 vittime, il bilancio peggiore degli ultimi sette mesi: bombe contro il quartiere sciita di Baghdad, Kadhimiyah, contro Mosul, Sadr City, Amin e Jihad.

Un mese dopo le elezioni che consegnano al premier Maliki una riconferma relativa, la coalizione “Stato di Legge” va a caccia di alleanze che garantiscano la maggioranza. Non sono pochi gli ostacoli: a parte le formazioni sciite più piccole, alcuni ex alleati di peso – il partito sciita Mutawin e quello curdo di Barzani – abbandonano il premier.

Simile la decisione degli sciiti sadristi di Ahrar. Aggiungendoci opposizioni sunnite e laiche lo schieramento anti-Maliki avrebbe i numeri per aggiudicarsi la maggioranza parlamentare, con circa 180 seggi su 328; a frenare, gli storici contrasti etnici, gli interessi contrastanti e le stesse divisioni interne ai partiti, tra schieramenti più morbidi sull’opzione Maliki (Patriotic Union of Kurdistan, Al Arabiya e Solution) e altri totalmente contrari ad un governo di coalizione (Iraqiya e United Bloc).

Fuori dalle stanze dei bottoni, il Paese è dilaniato. E il vero pericolo, secondo alcuni analisti, non arriverebbe tanto dall’ISIL quanto dai consigli militari sunniti di Anbar, frustrati da un’agenda di governo che affonda le radici nell’esclusione della componente sunnita: «Se chiedete ai cittadini [della provincia sunnita di] Anbar, vi diranno che il vero problema è la punizione collettiva contro i sunniti – spiega Erin Evers di Human Rights Watch – C’è chi pensa che l’ISIL sia una milizia sciita finanziata dall’Iran e utilizzata per dividere l’opposizione in Siria e inasprire i settarismi iracheni».

A pagarne lo scotto sono Ramadi e Fallujah: famiglie rifugiate in scuole e moschee, private delle condizioni igieniche di base, dei servizi sanitari e persino del cibo. Ciò si traduce nello spostamento verso forze settarie, aggiunge la Evers, che garantirebbero protezione alla popolazione: «La gente è disgustata dalla retorica settaria, ma il governo ha fallito e allora non hanno altra alternativa che certi gruppi». Sordo alle richieste della comunità sciita, il primo ministro si limita a operazioni contro gli islamisti. La prima, in piccolo, nella provincia di Diyala, conclusasi con l’uccisione di 14 miliziani. L’altra, di vasta scala, nella devastata Anbar: una jihad contro Al Qaeda, l’ha ribattezzata Maliki, alle prese con i miliziani islamisti da dicembre.

Nelle stesse ore, da West Point, Obama parlava di una destrutturazione interna ad Al Qaeda. E annunciando il ritiro dall’Afghanistan entro il 2016, sottolineava i parziali successi del modello iracheno: «Dobbiamo muovere la nostra strategia anti-terrorismo, basandoci su successi e carenze dell’esperienza in Iraq e Afghanistan dove il nostro esercito è divenuto il più forte sostenitore della diplomazia e dello sviluppo». Una diplomazia che ha il volto cruento di una guerra civile occulta e uno sviluppo che si traduce nell’arricchimento della classe dirigente alle spese del popolo iracheno.