Gli “indicatori sociali” sono numeri, proiezioni statistiche. I poveri, nuovi o vecchi che siano, sono la realtà. Possiamo affermare che nel 2013 il 15% degli adulti in Italia (milioni di persone) vive in una famiglia che non percepisce alcun reddito; oppure fare un giro ai mercati dove le persone raccolgono dal marciapiede le verdure ammaccate che finirebbero nella spazzatura. Possiamo estrapolare il dato sulla povertà tra i giovani (18-25 anni) che dal 2007 al 2010 è aumentata di tre punti percentuali arrivando al 15,4%; oppure chiedere ai tanti “cervelli” non in fuga come ci si sente ad imbiancare ogni tanto qualche parete o ad elemosinare 50 euro dalla nonna. Possiamo pensare a quel 13,2% che dichiara di non poter comprare cibo a sufficienza (era il 9,5% nel 2007), ma basta “assaggiare” quante uova e quanto pollo consumano alcune famiglie che fino a poco tempo fa potevano permettersi almeno di riempire il carrello della spesa.

Chi non se n’è ancora accorto, con cadenza quasi settimanale, può aggiornarsi sfogliando le tante ricerche sulla nuova miseria in cui stanno precipitando gli italiani. La maggioranza, ancora incredibilmente muta. Dice l’Ocse, nel suo rapporto appena diffuso, che in Italia “il reddito medio ha subito una diminuzione di circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando ad un livello di 16.200 euro pro capite nel 2012: una riduzione clamorosa se si pensa che nei paesi dell’eurozona la riduzione media è stata di 1.100. Detto questo, la “media” non ha mai a che fare con la realtà, anche perché in Italia ci sono milioni di persone, giovani soprattutto, che si farebbero il segno della croce per avere un reddito di 16.200 euro all’anno.

Gli osservatori dell’Ocse fanno notare che questa manifesta nuova povertà è dovuta al “deterioramento” del mercato del lavoro. E c’è un dato: in Italia la percentuale di persone in età lavorativa occupate è la quarta più bassa tra i 34 paesi dell’Ocse (55%, quasi una persona su due non lavora); sono messe peggio solo Spagna, Turchia e Grecia. Più impressionante, perché si cominciano ad intravedere le vite reali, un altro numero: “Tra il 2007 e il 2013 la disoccupazione è aumentata ad un tasso di 5.100 lavoratori alla settimana”: quasi 700 persone al giorno. Un disastro reso ancora più drammatico dalla “debolezza del sistema di previdenza sociale nel rispondere alle necessità di quanti hanno perso il lavoro o hanno visto il loro reddito da lavoro contrarsi”. Significa che pur avendo un tasso di disoccupazione superiore alla media europea, l’Italia ha una spesa di circa un terzo inferiore alla media degli altri paesi per assistere i cittadini in età lavorativa (assegni di disoccupazione o sussidi). Sono avvilenti anche le spese per i corsi di formazione o per l’assistenza per cercare nuovo impiego: la metà della media europea.

Se questo è il quadro, l’Ocse arriva in ritardo quando paventa il rischio che “le difficoltà economiche e le diseguaglianze diventino radicate nella società”. E’ già così. Tra il 2007 e il 2010, senza considerare che la forbice si è molto allargata in questi ultimi tre anni, il 10% più povero ha perso in media il 6% all’anno del proprio reddito, mentre il 10% più ricco ha perso solo l’1%. Che fare? La ripresa economica, suggerisce l’Ocse ficcando il naso nei nostri compiti a casa, “da sola non sarà sufficiente a riparare i danni causati da una lunga e profonda crisi”. Ragion per cui, “una delle priorità del paese è assicurare supporto ai gruppi più vulnerabili”. Con il sussidio di disoccupazione universale e il reddito minimo garantito. Ragionevole, anche se detta così, senza entrare nel merito del come e dove recuperare risorse per ridistribuire ricchezze, sembra piuttosto un aiutino al governo Renzi, che infatti incassa il benestare dell’Ocse, “gli ultimi provvedimenti sono importanti passi nella buona direzione”. Per proseguire, Matteo Renzi adesso dovrà spiegare dove reperirà le risorse adeguate. E soprattutto dire ai danni di quali categorie sociali.