Il movimento di protesta cileno ha cominciato a scaldare i motori. Il «marzo di lotta» con cui le forze popolari intendono dare la spallata decisiva al governo Piñera è iniziato con le mobilitazioni del cosiddetto «super lunedì», dominate dalla presenza per le strade dei giovani e dei giovanissimi.

DALLA PLAZA DIGNIDAD di Santiago alla Plaza de la Revolución di Antofagasta, passando per molte altre località del paese, sono stati infatti soprattutto gli studenti delle scuole secondarie – già protagonisti della massiccia protesta contro lo svolgimento dei test di ingresso all’università – a prendere l’iniziativa, realizzando barricate, blocchi stradali e proteste in diverse stazioni della metro.

Alle mobilitazioni il governo ha risposto con la violenza di sempre, lanciando gas lacrimogeni e sparando proiettili di gomma contro il corpo e il volto dei manifestanti, alcuni dei quali hanno anche riportato lesioni oculari, diventate ormai il segno distintivo della repressione made in Cile.

Del resto, dopo aver incassato l’approvazione della legge anti-barricate contro il diritto alla protesta sociale, Piñera non ha alcuna intenzione di limitare l’azione repressiva, non scartando neppure un nuovo ricorso a misure d’eccezione: «Se io ritenessi nuovamente necessario decretare uno stato d’emergenza per proteggere l’ordine pubblico e tutelare i miei compatrioti, non esiterei a farlo», ha annunciato in un’intervista, condannando i casi di «abuso della forza» commessi da «alcuni» funzionari di polizia ma esprimendo la sua sentita riconoscenza nei confronti dei carabineros.

Spaventato dalle proteste annunciate per tutto il mese (appuntamenti fissati per l’8, il 9, l’11, il 18, il 20, il 22, il 29 e il 31 marzo), è evidente che il governo si stia preparando al meglio, con tanto di acquisto di 11 nuovi blindati di fabbricazione israeliana e di altrettanti cannoni ad acqua. Ma nulla di tutto ciò basterà a fermare le proteste, tanto più considerando la stupefacente capacità del presidente di gettare, con le sue affermazioni, altra benzina sul fuoco.

È STATO COMUNQUE LUNEDÌ, durante un atto a La Moneda per la promulgazione della Ley Gabriela contro i femminicidi (dal nome della giovane Gabriela Alcaíno, assassinata dall’ex fidanzato nel 2018), che il presidente ha superato se stesso: con il conto alla rovescia già partito per l’attesissimo sciopero femminista dell’8 e 9 marzo, Piñera, affiancato dalla ministra dell’equità di genere Isabel Plá, ha assicurato che «a volte non si tratta solo della volontà degli uomini di abusare, ma anche della disponibilità delle donne a essere abusate». Dinanzi al diluvio di proteste scatenate dalle sue parole, Piñera ha provato a correre ai ripari, ribadendo la linea di «tolleranza zero» del suo governo riguardo a «ogni tipo di violenza o abuso contro le donne» e invitando queste ultime a «denunciare immediatamente qualsiasi rischio o minaccia alla loro integrità». E la ministra Plá, criticatissima per i suoi silenzi sui casi di abuso registrati dall’inizio della rivolta sociale il 18 ottobre scorso, ha tentato di ridimensionare le parole del presidente, escludendo ogni intenzione di evidenziare una qualunque responsabilità delle vittime.

MA NON È SERVITO, né poteva bastare. «Con che coraggio ci viene a dire che noi donne cerchiamo di essere violentate, lui che crede che l’abuso sessuale sia una barzelletta per far ridere i suoi amichetti imprenditori», ha tuonato la Coordinadora Feminista 8M. «La colpa non è nostra né lo è mai stata. La colpa è di quanti ci violentano e abusano di noi e delle istituzioni che li proteggono. È dello stato, dei giudici, dei poliziotti e del presidente», ha proseguito, citando l’elenco dei colpevoli ripetuto ormai innumerevoli volte nel flash mob Un violador en tu camino del collettivo femminista La Tesis.