«Tutto è già cambiato per sempre», ha dichiarato la popolare Primera Línea, la frangia più combattiva dei manifestanti, in una lettera aperta ai popoli del Cile e del Wallmapu (il territorio storicamente abitato dai mapuche) in occasione del primo anniversario della rivolta sociale contro il governo Piñera. Ed è questa «sensazione», quella di una dignità riconquistata lottando «per ciò che è giusto», che ha condiviso la moltitudine scesa nuovamente in strada domenica, affollando quella che è da sempre l’epicentro delle proteste, Plaza Italia a Santiago.

Nella piazza non a caso intitolata durante la rivolta alla Dignidad, i manifestanti hanno ridipinto di rosso, in nome del sangue versato dalle vittime della repressione, la statua del generale Baquedano, la stessa immortalata dalla foto simbolo delle proteste, quella in cui un giovane salito in cima al monumento sventola la bandiera mapuche. La stessa statua, appena ripulita dagli insulti contro Piñera, ai piedi della quale il presidente, in un atto di gratuita provocazione, si era fatto fotografare sorridente durante la quarantena.

LE ÉLITE FANNO FINTA DI NIENTE, ma tutto è davvero cambiato da quando, lo scorso anno, gli studenti, per protestare contro l’ennesimo aumento del costo del trasporto pubblico, hanno scavalcato i tornelli della metro senza pagare il biglietto. Ci avrebbero pensato i carabineros, con la loro violentissima reazione, a trasformare quella protesta – la spia di un un profondo malessere sociale malamente oscurato dal marketing ultraliberista di Piñera – in un’aperta rivolta contro il governo, sotto lo slogan «Non sono 30 pesos, sono 30 anni» (riferimento ai tre decenni dalla fine della dittatura segnati dalla medesima ingiustizia sociale).

Così, nell’oasi felice evocata dal presidente appena qualche giorno prima che esplodesse il finimondo, i carri armati, con la dichiarazione dello stato di emergenza e il successivo coprifuoco, erano ritornati per le strade cilene come non si vedeva dalla fine del regime di Pinochet. E la presenza dei militari e più ancora l’intervento dei carabineros – gli odiatissimi pacos di cui oggi si chiede a gran voce la dissoluzione – avevano prodotto quel che c’era da aspettarsi: 36 morti, in alcuni casi per responsabilità diretta delle forze “dell’ordine”; 8.575 casi di violazione dei diritti umani; 460 vittime di lesioni oculari (tra cui due giovani, Gustavo Gatica e Fabiola Campillay, hanno perso completamente la vista); circa 2.500 manifestanti arrestati in via preventiva, tra cui minorenni come il sedicenne Benjamín Salazar, che, in prigione da più di 9 mesi, rischia una condanna a 10 anni di carcere.

MA NÉ LA REPRESSIONE violenta, né le lusinghe alternate a minacce da parte del governo e neppure l’accordo-truffa sul plebiscito per una nuova Costituzione in programma il 25 ottobre hanno potuto svuotare le piazze. A riuscirci, da marzo, è stato solo il Covid-19 e neanche completamente. Perché la Primera Línea in qualche occasione si è fatta comunque vedere, sfidando la rigida quarantena disposta dal governo. E in strada i manifestanti hanno ricominciato a tornare via via più numerosi già dall’inizio di ottobre, in particolare dopo gli ennesimi brutali episodi di violenza da parte dei carabineros, giunti a gettare da un ponte, sul fiume Mapocho, un ragazzo di 16 anni, Anthony Araya – il quale ha riportato fratture in diverse parti del corpo -, e ad accanirsi con un idrante contro un manifestante sulla sedia a rotelle.

Tutto indica che le proteste non si fermeranno, finché, assicurano i manifestanti, le forze popolari non riusciranno a «fare di questo paese una terra per tutte e per tutti». «Ci piacerebbe – scrive la Primera Línea – che tutta la tragedia ricaduta sul Cile non fosse esistita e ora potessimo tutti passeggiare, giocare, divertirci, vivere. Ma la sadica avidità dei capitalisti non ce l’ha permesso».