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Kianoush Ramezani

 

Kianoush Ramezani, classe 1973, è un disegnatore e vignettista iraniano. Nel 2009 ha lasciato il suo paese, dove era finito nella «lista nera» delle autorità, e ha trovato asilo politico in Francia. Nel 2012 i suoi disegni satirici pubblicati su diverse testate internazionali gli sono valsi il premio Kofi Annan. Oggi vive a Parigi ed è il presidente di United Sketches, un’organizzazione che lotta per difendere la libertà d’espressione di illustratori e vignettisti di tutto il mondo. Lo incontriamo nel suo «quartier generale», un caffé lungo la Senna crocevia di artisti a pochi passi dalla Cité des arts dove Kianoush trovò rifugio nei primi mesi del suo esilio. La strage al Bataclan è ancora una ferita aperta, mentre il 7 gennaio è stato ricordato il primo anniversario di un altro massacro: quello della redazione del giornale satirico Charlie Hebdo.
«Quel giorno si è rotto qualcosa dentro di me – spiega Ramezani . È stato uno choc tremendo. Ero fuggito dall’Iran sognando di essere finalmente al sicuro. Prima dell’attacco a Charlie Hebdo mi sentivo protetto: m’illudevo. Ho capito improvvisamente che non c’era sicurezza possibile. Ero un obiettivo anch’io. Nella strage ho perso degli amici, con Tignous in particolare avevo un rapporto speciale. È stato come se avessero ucciso dei membri della mia famiglia. Per questo dentro di me è cominciata a montare la rabbia unita a un sentimento di vendetta. Ero confuso, furibondo. È stato il giorno peggiore della mia vita. Ho ricominciato a disegnare: era l’unico modo che avevo a disposizione per vendicarmi. Ho vissuto giorni di super attività, di impegno creativo totale. Ho contattato moltissimi miei colleghi disegnatori in giro per il mondo. Molti erano terrorizzati. Ho cercato di dire che quello era il momento di reagire, di impegnarsi in una sorta di terapia collettiva. Non è stato facile: quando stai soffrendo, disegnare è davvero complicato».

Quando eri in Iran avevi già subito minacce. Questo ha cambiato qualcosa nel tuo modo di percepire il massacro avvenuto nella redazione di «Charlie Hebdo»?
Pochi mesi prima della strage avevo incontrato i disegnatori di Charlie Hebdo. Tignous, Charb, Luz. Li avevo messi in guardia, correvano dei rischi seri. Loro mi avevano risposto: «Ma qui siamo in Francia mica in Iran!». Quando ho saputo quanto era successo mi sono sentito offeso e ferito due volte. Ero fuggito per lasciarmi alle spalle le minacce di morte e la ritrovavo a migliaia di chilometri sotto la porta di casa. Ho cominciato a stare meglio dopo aver partecipato alla marcia dell’11 gennaio. Mi sono sentito protetto dalla gente. È stato fondamentale. Ho sentito supporto, calore… Le persone mi proteggevano perché nessun governo può farlo al posto loro.

L’idea di creare United Sketsches è nata allora? Ci puoi raccontare come e perché hai pensato di dare vita a una rete, a un coordinamento internazionale dei disegnatori e dei vignettisti?
Nelle settimane successive all’attacco a Charlie, con l’appoggio fondamentale del Memorial di Caen, ho deciso di creare un’organizzazione che sostenesse la libertà d’espressione su scala globale. Fino al 2010 avevo fatto parte di Cartoonist for peace e in questa organizzazione avevo creato molte relazioni di amicizia. Poi mi sono reso conto che la molla che muoveva il mio lavoro era un’altra. La pace è un ideale molto bello e nobile ma il problema più urgente è difendere ovunque la libertà, soprattutto quella d’espressione. È questo l’impegno a cui ho dedicato la mia vita. Criticare il potere è la nostra responsabilità. Ho quindi pensato a un’organizzazione che difendesse e sostenesse i disegnatori in esilio. Ma anche stavolta la definizione mi è presto sembrata troppo riduttiva. Perché solo quelli in esilio? United Sketsches si pone due obiettivi: proteggere la libertà d’espressione (garantire che tutti possano lavorare) ed esprimersi con tutti i mezzi che si hanno a disposizione. Il rischio sempre in agguato è che i vignettisti, sentendosi minacciati, comincino ad autocensurarsi. Per paura di perdere il lavoro, di venire licenziati o peggio. L’autocensura è insidiosa. Per questo, il secondo e cruciale obiettivo è dare ai disegnatori visibilità: protegge chi disegna e il suo lavoro.

 

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Tu sei nato e cresciuto in una società e in un paese islamico come l’Iran. Avresti mai disegnato vignette su Maometto? Cos’hai pensato della scelta fatta dai tuoi colleghi di «Charlie Hebdo»?
Sono nato in Iran e per questo credo di conoscere i codici sociali e simbolici delle società islamiche. Per noi Maometto è una figura intima, familiare. Prendersela con Maometto è un po’ come prendersela con un bisnonno. Con un membro della famiglia. Non ha molto senso. Credo che il ruolo di un vignettista sia innanzitutto quello di criticare il potere e per farlo ci sono metodi migliori. Se sei coraggioso devi prendertela con gli islamisti, con i salafisti.
Il disegnatore non è un semplice illustratore ma un attivista. Credo che, attraverso il disegno, si debba cercare di far passare dei messaggi. Si debbano porre domande, anche scomode. Ad essere sincero non sono un grande fan di un umorismo così diretto, letterale. È giusto che esista. Fa in qualche modo parte del panorama ed è legittimo ma io preferisco un’ironia più sottile, capace di alludere per poi lasciare il lettore libero di interpretare, di farsi un’idea. Questo in fondo è il mestiere più bello del mondo: allo stesso tempo serio e divertente.

Qual è la situazione oggi in Iran? Tu che avevi appoggiato la «rivoluzione verde» vedi delle prospettive di cambiamento?
Non ci sono all’orizzonte cambiamenti possibili. La situazione geopolitica degli ultimi mesi contribuisce a rafforzare il regime. Non ci sono manifestazioni né movimenti organizzati di protesta. C’è un ripiegamento generalizzato nel privato. La vita degli iraniani è stata raccontata perfettamente da Mariane Satrapj. Il suo film Persepolis fotografava perfettamente lo sdoppiamento tra pubblico e privato che è la caratteristica fondamentale dell’Iran di oggi. Esteriormente tutti sembrano rispettare le regole imposte dalle autorità e dagli ayatollah. Poi tra le mura domestiche si vive un’altra vita. La gente scarica film hollywoodiani, beve e viola allegramente i precetti religiosi.

Cosa pensi del successo del Front National? Ti fa paura?
No, non ho paura. Per fortuna vivo a Parigi. La città, e il voto lo ha dimostrato, non la pensa come il resto della Francia. Da quando sono qua non ho mai avvertito sulla mia pelle forme di razzismo e intolleranza. Forse a Parigi, in certe zone soprattutto, si vive un po’ come in una bolla. Credo comunque che quanto successo alle Regionali fosse abbastanza prevedibile. Il Front National ha saputo strumentalizzare la paura, possiede strategie efficaci. Il problema è che le altre forze politiche demonizzano l’Fn senza analizzare la sua crescita e le ragioni profonde che hanno portato al successo la destra estrema. Non credo che il Front National abbia molte possibilità di conquistare l’Eliseo nel 2017 ma tutto dipenderà dagli altri partiti. Forse si metteranno d’accordo per bloccare la sua ascesa. Se i socialisti e la destra di Sarkozy continueranno a fare errori e a portare avanti certe politiche spianeranno la strada alla Le Pen.

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