Giulio Paolini è un artista che ama le soglie, gli spazi incerti della germinazione, gli apparenti vuoti che pullulano di ombre, il bilico, la sospensione. Fra tutti gli altri autori della sua generazione (è nato a Genova nel 1940), è quello che più di ogni altro ha indagato, senza mai perdersi d’animo, l’indecifrabilità dell’arte. E la risposta, ancora oggi, resta aperta: lo dimostra quella presenza, quasi metafisica, degli strumenti stessi del mestiere che si ricompongono come puzzle in installazioni e mille varianti, in un perenne gioco acrobatico fra accumulazione e sottrazione. L’esercizio della ragione, soprattutto se affilato, non consente un approdo sicuro. La navigazione senza terre da avvistare è una attitudine profondamente umana, è un «tastare» la conoscenza che non si può dare a priori, ma incedendo passo dopo passo su un itinerario concettuale. «Un termine questo – confida Paolini – che ha iniziato a starmi piuttosto stretto».

Così, Essere e non essere, il titolo della personale che si è inaugurata al Macro (fino al 9 marzo, a cura di Bartolomeo Pietromarchi) lo descrive con la perizia di un abile ritrattista. E, sulla scia dell’amletico dubbio, già profetizza la seconda tappa londinese, quando nel luglio prossimo l’intera mostra sbarcherà alla Whitechapel Gallery, arricchita nel suo corpus con alcuni lavori storici. Qui, nella capitale, ci sono quattordici opere che allestiscono enigmatici set e attivano nello spettatore un’illusione: la possibilità di un disvelamento dei dispositivi che conducono alla creazione. In realtà, la storia non sarà mai raccontata fino alla fine.

«Un quadro si annuncia, ma non si compie». Giulio Paolini, in questo, è stato sempre rigoroso. Si attiene sempre alla presenza/assenza dell’autore.

Il percorso espositivo che si articola in cinque stanze (va dal 1987 al 2013) ha il suo centro semantico in una scacchiera di tele, al recto e al verso, dove due figure maschili, eterna rincorsa di un doppio di sé e di un rispecchiamento nel mondo, disegnano e guardano la forma proprio nel suo farsi. È questa l’opera che «alza» il sipario sulla rassegna, affidandole anche quel titolo shakesperiano e dai toni vagamente esistenzialisti.

Cappello e cappotto nero, incontriamo Paolini in una gelida mattinata romana al museo, mentre esegue un piccolo ritocco ad una sua opera, con la precisione matematica che lo contraddistingue fin dai suoi esordi. Torinese di adozione – vi si trasferì all’età di dodici anni – l’artista non torna spesso a visitare le sue «radici». Preferisce, dice, conservare nel cuore la sua città. A Roma, invece, colloca molti dei suoi ricordi, è stata un luogo importante, una fonte di scambi e incontri fin dagli anni Sessanta.

Carattere schivo e solitario, Paolini accetta un’intervista in forma di chiacchierata. Incalzato da alcune parole-chiave che ricorrono nei suoi scritti teorici, quasi refrain del suo pensiero, procede per rapide epifanie, sviluppando un discorso ferreo su una ricerca che è stata fra le più coerenti del Novecento e prosegue, senza impallidire, anche nel terzo millennio.

Partiamo da una parola per lei fondante: ribaltamento…

Sono fermamente convinto – anche se non lo posso dimostrare perché nulla in arte si può dimostrare, ma solo argomentare – che l’autore non debba essere un artefice sorgivo, non è lì per trasmettere qualcosa della sua interiorità o intimità. Al contrario, è qualcuno che viene toccato – il termine è discutibile – da uno stato di grazia. Si sente interprete di qualcosa che c’è già e, in un certo senso, lo trascende e precede.

Dunque l’autore è un demiurgo, un filosofo?

In un senso platonico sì, perché l’opera si manifesta all’autore, ma non è che venga di fatto da lui plasmata. Naturalmente, si può dire l’una e l’altra cosa. Io però mi concedo di formulare affermazioni che sono più perentorie di quanto invece sia una certa enigmaticità dell’immagine. Sulla questione spettatore/autore ho un atteggiamento chiaro e laico. Il pirandelliano «in cerca d’autore» rappresenta una grande suggestione. A volte traccio la figura dell’autore: non sono mai «io», ma sempre una sorta di controfigura, oserei dire un manichino, un interprete che veste gli abiti classici della recita, con atteggiamenti teatrali.

Ha spesso scritto e parlato di un suo interesse per l’ontologia dell’arte…

In ogni mia opera, permangono gli elementi costitutivi, gli aspetti elementari, gli ingredienti che rendono tale un’immagine. Tele, cavalletti, tutto l’armamentario pratico. Anche quando tutto ciò diventa immagine, sono oggetti che non si riesce a occultare, né a dimenticare. Resta sempre una sorta di dialogo aperto tra quel che sarà e quel che era. Non c’è qualcosa di plasmato e modellato, che tende a conformarsi. Rimane un aspetto di precarietà. Nei lavori esposti in questa mostra, è particolarmente evidente quel divenire dell’esperienza proprio come materiale di studio, la materia che si fa concetto aperto.

All’inizio del suo percorso, troviamo una fotografia, il «Giovane che guarda Lorenzo Lotto». Anche la personale del Macro si apre con un autoritratto fotografico, «Delfo IV». Poi, questo medium è stato accantonato. Cosa è accaduto?

La fotografia è stata un approdo precoce del mio lavoro nei primi anni sessanta. Mi sono servito (e ho indagato) delle modalità squisitamente fotografiche e non ho mai abbandonato questa attitudine. Ultimamente, in effetti, non c’è più

quell’aspetto di registrazione e documentazione,

che la fotografia impersona. Prevale, forse, un aspetto di teatralità, di accostamenti/allestimenti che scartano rispetto all’immagine fissa fotografica.

La sua analisi del vedere è assai

poco colorata….

È vero, sono un po’ sprovveduto (ride). Nei primi anni sessanta, invece, avevo preso possesso della realtà dei colori. Ho realizzato dei quadri con una sorta di campionatura cromatica. Per me, il colore è un ingrediente, come la tela e la matita, non è una voce che si sprigiona da solista. Troppo emozionale, rimane un parziale veicolo comunicativo. In effetti, il colore se ne sta sulla soglia. È un ingrediente accessorio riguardo l’essenza e struttura dell’opera. Rischia di ridurre, più che arricchire.

Lei è anche un teorico. E scrive. Nell’opera qui esposta «L’ospite» il personaggio ritratto è Borges. Considera la scrittura come una integrazione della sua attività nelle arti visive?

Non credo di svolgere un’attività teorica, mi concedo di annotare delle considerazioni, dei brevi testi, non sono mai scritti estesi, piuttosto sono dei flash. Mi confermano, in modo più esplicito, quello che cerco o credo di fare attraverso l’immagine. La scrittura è un’attività parallela, che però non voglio abbandonare e, anzi, nella quale mi rifugio sempre volentieri.

Il tempo: lo possiamo definire ciclico, infinito, aperto?

Io sono un suddito del tempo, lo ritengo l’autorità suprema, ma questo credo sia senso comune. Il tempo ci governa, a parte l’aspetto esistenziale della questione, anche per quanto riguarda la storia dell’arte: è lui il supremo regolatore, censore o esegeta. Un’opera può non resistere, oppure essere qualificata e affermata dal tempo. Il tempo è artefice di bellezza: pensiamo a quelle rovine che ha conservato ma anche ha corrotto, a quella specie di curioso e ambiguo equilibrio fra conservazione e lavorazione su qualcosa che resta e se ne sta lì, continuando a guardarci.

Non solo musei e gallerie. Nella sua vita ci sono i libri e poi il teatro. Cosa può dire dell’esperienza di scenografo?

Ho lavorato in teatro in modo discontinuo e occasionale, non sono regolarmente impegnato come scenografo. A contatto con il palcoscenico, bisogna cambiare totalmente l’approccio rispetto alle arti visive. Faccio un esempio: quando lo scenografo – per esempio io che non lo sono – si trova sul palcoscenico, immerso nei preparativi per organizzare una situazione spaziale, ecco quello è sempre un momento penoso perché si sta dentro la scena con le luci di servizio e non si può non notare che la finitura non è accurata, perché tanto si vede da lontano… Si vive un certo squallore. Poi, si scende in platea per constatare cosa si è fatto, si regolano le luci, le vere regine del teatro, si controlla l’insieme a distanza, l’appiattimento della prospettiva e, alla fine, tutto funziona. È un miracolo, cui assisto sempre con stupore. La scatola teatrale benedice ciò che di per sé sarebbe un po’ carente.

Negli anni sessanta e settanta non ha sperimentato molto il linguaggio video. Qualche ideosincrasia?

Sono piuttosto refrattario a quel linguaggio, anche se in questa mostra sono presenti alcune proiezioni… In realtà, ne ho realizzato uno: non era un video vero e proprio, ma una successione vertiginosa di immagini fisse delle mie opere, una specie di animazione. Verso l’immagine-movimento di tipo cinematografico non ho mai avuto una grande propensione.