Mohamed Al-Qiq sta morendo. Ha già perso la vista, l’udito e l’uso degli arti. Il giornalista palestinese, 33 anni, padre di due figli, è in sciopero della fame dal 25 novembre, deciso a spingersi fino alle estreme conseguenze. Da 90 giorni, sta consumando il corpo per gridare il dolore di un popolo sotto occupazione.

Mohamed è uno dei 7.000 prigionieri politici rinchiusi nelle carceri israeliane, 650 dei quali si trovano, come lui, in regime di «detenzione amministrativa»: incarcerati senza accusa, senza processo, e senza possibilità che i loro legali possano consultare gli atti. Fra loro vi sono anche molte donne e circa 700 minori. Una condizione senza scadenza termini, che può protrarsi all’infinito: in spregio al diritto internazionale, in particolare a quello stabilito dalla convenzione di Ginevra. Nella Cisgiordania occupata, l’esercito israeliano è autorizzato a compiere «detenzioni amministrative» contro civili palestinesi in base a un articolo del codice militare. Al Qiq era corrispondente dalla Palestina per la tv saudita Al-Majd.

Per informare su questa gravissima situazione e per salvare la vita al giovane giornalista, «che non ha commesso alcun delitto», ieri a Roma si è tenuta una conferenza stampa nella sede dell’Ambasciata palestinese: il regime israeliano, dopo aver isolato il giornalista in una cella singola, separandolo dai suoi compagni; dopo averlo privato delle visite della sua famiglia, continua a negargli il trasferimento in un ospedale di Ramallah. Attualmente, Al-Qiq si trova nell’ospedale israeliano di Afula, «dove l’esercito d’occupazione ha persino effettuato un raid».

«Per tutta la vita ho vissuto in una terra sotto occupazione – ha detto l’ambasciatrice Mai Alkaila – anch’io com’è accaduto a un milione di palestinesi sono andata in carcere: una condizione che ha riguardato il 30% della nostra popolazione. In carcere, senza capi d’accusa, vi sono anche 17 deputati e 3 ex ministri: perché i giudici sono anche i nostri carnefici».

Al di sopra delle leggi

Il presidente Abu Mazen «ha parlato con Kerry di Al-Qiq e degli altri prigionieri politici palestinesi. Ma Israele si sente al di sopra delle leggi e bolla come terrorista chiunque cerchi di denunciare, come fu per il Sudafrica, il regime di apartheid e come stanno facendo gli attivisti della campagna Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni). Ma, a livello internazionale, i diritti umani vengono subordinati agli interessi economici».

In Israele – ha aggiunto Ashir, presidente della Comunità palestinese – «vi sono 93 etnie. Di recente, alle donne etiopi che si sono trasferite in Israele è stato imposto di prendere anticoncezionali per non aumentare la proporzione di etiopi. In prima fila nei conflitti vengono inviati gli ebrei yemeniti, mentre anche nel governo i ministeri chiave sono nelle mani degli ebrei occidentali. E si dovrebbe riflettere quando un colonnello israeliano viene ucciso nello Yemen o un consulente militare israeliano viene arrestato in Iraq».

L’appello, rivolto ai giornalisti e a tutti quelli che appoggiano il diritto dei palestinesi a vivere sulla propria terra senza occupazione, è quello di moltiplicare le iniziative di sostegno: sul territorio, con le associazioni di categoria e presso i propri governi, o inviando cartoline alla Croce rossa.

Intanto, continuano le manifestazioni di sostegno ad Al-Qiq in ogni parte del mondo. Anche in Israele. Domani alle 15, a Milano si svolgerà un presidio sotto la Rai, in Corso sempione, 27: «Per informare la popolazione sulla situazione di Mohammed Al-Qiq e di tutti i prigionieri politici palestinesi; per denunciare la complicità del governo italiano nelle violazioni ai diritti umani e al diritto internazionale da parte di Israele; per condannare le manovre dei dirigenti italiani a sostegno dell’occupazione e della colonizzazione».