Pochi giorni prima la morte di Shimon Peres in un letto dello Sheba Medical Center, Yasser Thiab Hamduna si spegneva nel carcere israeliano di Ramon. Attacco di cuore, dice l’autopsia; ucciso dalle mancate cure mediche in prigione, dice la famiglia. Durante i funerali, migliaia di persone hanno marciato sventolando bandiere della Palestina e chiedendo la liberazione di tutti i detenuti politici palestinesi, ad oggi 7mila.

Hamduna aveva 41 anni e soffriva di cardiomegalia, l’anormale ingrossamento del cuore. Le autorità carcerarie israeliane erano a conoscenza della malattia ma non gli hanno fornito alcuna cura. Nel 2015 il primo infarto, a cui non sono seguite terapie; domenica il secondo infarto, letale. Non è il solo: secondo la Palestinian Prisoner’s Society, dall’occupazione militare del 1967 sono almeno 208 i prigionieri palestinesi morti a causa di negligenza medica da parte di Israele.

Oggi il numero dei detenuti malati avrebbe superato i mille: tra le patologie più comuni il cancro e la disabilità dovuta spesso a torture fisiche e psicologiche. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, l’aumento continuo di prigionieri in precarie condizioni di salute è dovuto a negligenza medica, sovraffollamento e sporcizia delle celle, bassi standard igienici e umidità costante. Nel mirino anche la questione della “doppia fedeltà”, denunciata dai palestinesi: i medici delle carceri sono fedeli allo Stato di Israele prima che agli obblighi etici imposti dalla professione.

In alcuni casi ad aggravare le condizioni di salute, già fragili, nelle carceri israeliane sono gli scioperi della fame, estrema forma di lotta per chi è detenuto per motivi politici. Se in passato è stata la modalità di protesta usata in massa per costringere le autorità israeliane a riconoscere diritti di base, oggi è per lo più utilizzata individualmente soprattutto dai detenuti ammnistrativi, in carcere senza processo né accuse ufficiali. Gli ultimi a passarci sono stati Malik al Qadi e i fratelli Muhammad e Mahmoud Balboul: rispettivamente dopo 77, 79 e 68 giorni di digiuno hanno ottenuto da Israele una data di liberazione certa.

Nel concludere lo sciopero hanno ringraziato gli altri prigionieri che li hanno sostenuti aderendo allo sciopero e la società fuori che ha organizzato manifestazioni di solidarietà. Perché dagli anni ’70 il movimento dei prigionieri è considerato uno dei pilastri della lotta per la liberazione: «I prigionieri hanno sempre svolto il ruolo di accensione delle proteste e di coesione – spiega al manifesto Murad Jadallah, ex prigioniero e per anni ricercatore di Addameer, associazione per la tutela dei prigionieri politici – Il movimento dei detenuti ha sempre mobilitato la società. Per questo ne ha paura non solo Israele, ma anche l’Autorità Palestinese: i sit-in in sostegno ai prigionieri sono stati aggrediti dalla polizia, alcuni manifestanti picchiati. Il governo di Ramallah teme che siano ancora una volta la spinta ad una vera rivolta della base».