Questa della partita di calcio è una storia di guerra e di bombe prodotte in Italia, bombe spacciate con l’inganno del diritto al lavoro. Una storia di politica del male comune, che pur di fare affari non guarda in faccia a nessuno, nemmeno alle leggi.

Questa infine è la storia di un paese allo sbando che ha perso il senso della decenza, l’Italia del calcio che sulla Supercoppa Juventus-Milan a Gedda e trasmessa in diretta oggi da Rai1, gioca il suo più clamoroso autogol.

Ma c’è un Parlamento che metta alle strette il governo italiano? L’Italia, alleato senza inquietudini dei sauditi, ha contratti che spaziano dalle armi, incluse le bombe prodotte in Sardegna su procura della tedesca Rheinmetall Defense Electronics, agli accordi per disputare là finali di calcio made in Italy.

Il caso della Supercoppa, appunto: «Una partita che si gioca per il dio denaro, alla faccia dei molti giornalisti scrittori, pacifisti e blogger che marciscono a centinaia nelle carceri saudite», ha chiosato Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione Nazionale delle Stampa.

La strategia sul sito del consolato di Gedda del resto è chiara: «L’Italia è uno dei migliori partner commerciali dell’Arabia saudita in Europa, al primo posto negli ultimi anni. Nel 2014, le esportazioni italiane verso il Regno hanno raggiunto più di 18 miliardi di Reali Sauditi e includono principalmente macchinari industriali, prodotti raffinati e apparecchiature elettriche. Il nostro obiettivo comune è quello di raggiungere cifre ancora più grandi e una maggiore diversificazione».

Chi mette alle strette il mondo politico italiano sui sauditi è un piccolo inflessibile mobilitazione della Sardegna, il Comitato per la Riconversione della RWM Italia (dal nome dell’azienda che produce a Domusnovas le bombe esportate in Arabia saudita e lanciate in Yemen) che da oltre due anni non cede di un passo. Dal Sulcis ha lambito la stampa internazionale e inizia forse a intaccare l’annosa indifferenza del governo, se prendiamo per buone le parole di Giuseppe Conte alla conferenza stampa di fine anno: «Non siamo favorevoli alla vendita di queste armi e quindi ora si tratta solo di formalizzare questa posizione e agire di conseguenza».

Ce lo impone la legge 185/90 che regolamenta in Italia il commercio delle armi secondo principi che hanno fatto scuola nel mondo. Quella norma è un bastione per impugnare le scelte dei governi da tempo incuranti delle clausole che impediscono chiaramente all’Italia di esportare armi a chi viola i diritti umani ed è coinvolto in conflitti. Qualche senatore pentastellato vorrebbe modificarla ora, senza cognizione di causa, per «migliorarne l’attuazione».

Come se le esportazioni in Arabia saudita fossero colpa della legge. La legge 185/90 va invece riesumata nella sua applicazione, anche laddove prevede l’attivazione e il finanziamento di un fondo per la riconversione della industria militare, casomai operando sui decreti attuativi, in modo da fermare l’escalation di export militare italiano e ripristinare la trasparenza che abbiamo conosciuto ai tempi della Prima Repubblica.

C’è voluta la morte di Jamal Khashoggi per squarciare il velo sul cinismo saudita, fino a puntare lo sguardo sulla guerra in Yemen. È giunto il tempo per noi di una discussione pubblica seria sull’impatto del complesso militare-industriale italiano sulla instabilità geopolitica (in particolare in Medio Oriente) e nella definizione della politica estera e di sicurezza dell’Italia.

Prima di tutto, c’è un conflitto che da quattro anni sconquassa lo Yemen. Una guerra rimasta perlopiù nell’ombra degli interessi geopolitici che l’hanno prodotta e giustificata, salvo sortire poi dal lungo silenzio grazie – paradossale torsione della storia – alla vicenda di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita fatto a pezzi il 2 ottobre 2018 nella sede del consolato del suo paese a Istanbul, dove si era recato per formalizzare un procedura di divorzio.

Il corpo smembrato del noto editorialista del Washington Post è metafora e specchio dello smembramento sociale ed economico dello Yemen sotto le bombe: vite parallele di uomini e paesi che non si possono ignorare. Quei resti umani del saudita, ancora introvabili, rimandano agli squarci dei bombardamenti e alle viscere rivoltate dell’intera società yemenita sotto scacco per via di un’epidemia di colera come non se ne vedevano da secoli e di una carestia senza precedenti. L’Onu parla di malnutrizione acuta, la versione più estrema della fame, per 400mila bambini.

Poi c’è la corona saudita, regista e mano del duplice scempio. C’è lo strano caso di Mohammed bin Salman (MbS), rampollo e promessa della modernizzazione della monarchia, che ha saputo gabbare la comunità internazionale con poche abili mosse di sostanziosi affari militari e roboanti operazioni maquillage sui diritti (le donne saudite al volante).

Con il piglio scanzonato, MbS ha ritenuto ammissibile nel 2015 porsi alla testa di una coalizione militare di paesi sunniti contro le forze antigovernative sciite degli Houthi in Yemen, per attizzare di fatto un nuovo conflitto internazionale contro l’Iran. Con altrettanto piglio ha ritenuto possibile orchestrare, con un team di 15 collaboratori – tanti ne ha contati la Cia – un’imboscata per azzittire la voce non proprio accondiscendente di Khashoggi.

Il principe non demorde. Il processo appena avviato in Arabia saudita sulla morte del giornalista, a porte chiuse e senza citare i nomi dei sospettati, è un «travestimento della giustizia», commenta il Washington Post. Gli intrecci economici che legano il mondo intero all’Arabia saudita, in barba alle ben note violazioni dei diritti umani (donne e non solo), sono di immensa portata e nessuno vuole veramente rompere con Riyadh.

Le acrobazie narrative di Donald Trump per scagionare il principe saudita non hanno convinto il mondo politico americano. A dicembre, il Senato uscente ha messo alle strette il presidente Trump approvando all’unanimità una risoluzione che punta il dito contro la responsabilità del principe saudita nell’omicidio e invoca un’indagine urgente dell’amministrazione per accertarla.