Si può comprendere la caparbietà di Ignazio Marino nel riaffermare la volontà di continuare a essere e fare il sindaco di Roma. Lascia trasparire l’orgoglio politico di chi si sente estraneo alle porcherie che da anni si annidavano nella maglia dell’amministrazione comunale, compresa quella ch’egli stesso aveva intessuto. E cerca soprattutto di dimostrare che proprio grazie alle sue decisioni è stato possibile se non smantellare, quantomeno arginare questa deriva criminale.

Ma il Campidoglio non può continuare a sentirsi sotto assedio, a vivacchiare stordito da rivelazioni e incriminazioni, e con l’angoscia quotidiana di subirne altre ancora.

Ormai gli amministratori romani, quelli ancora in carica e quelli subentrati agli arrestati, si svegliano al mattino, ammesso che di notte dormano, nel timore che qualcuno bussi alla porta. Vivono nell’ansia di ritrovarsi citati sui giornali, nominati in qualche intercettazione telefonica, coinvolti a torto o a ragione in un’inchiesta giudiziaria che ogni giorno scopre nuove illegalità, aggiunge nuovi particolari, avvia nuove indagini.
Ne consegue una totale paralisi dell’attività amministrativa. Non si decide più nulla. La giunta è come sospesa, il consiglio è diradato, gli staff si chiudono nelle stanze e gli apparati latitano o fanno resistenza passiva. In una città che, al contrario, avrebbe bisogno di tante cose, di cure e di progetti, di un rilancio economico, di un sostegno sociale, di una rinascita culturale. E che scivola invece lungo una deriva di precarietà, inefficienza, degrado.

Anche in precedenza, ben prima dell’inchiesta sulla mafia capitale, Roma soffriva e languiva di una politica restrittiva e inconsistente, imprigionata dal suo debito ma incapace di liberarsene. Una politica sostanzialmente anti-sociale: che tagliava i servizi per consegnarli al privato, che non programmava sviluppo e riduceva gli stipendi, che rincorreva i grandi eventi ma non assicurava le manutenzioni, che sgomberava le autogestioni e svendeva il patrimonio. Contro cui, per la prima volta da decenni, i sindacati avevano proclamato scioperi e manifestazioni. In un crescendo di cortei e proteste dei movimenti di lotta per la casa, del terzo settore e della cooperazione sociale, della cultura indipendente.

Il vortice giudiziario si abbatte dunque su una città piegata e piagata, già in evidente crisi. Una città che con non è più nelle condizioni di andare avanti per molto. E sbaglierebbe chi pensasse di tirare a campare presumendo che diversamente le cose andrebbero peggio. Ma siamo davvero sicuri che si corra questo rischio? O per Roma non sarebbe meglio che siano nuove figure, nuove culture, nuove sensibilità a prenderne in mano i destini? Sarebbe davvero meschino far prevalere la convenienza politica sulla dignità istituzionale, i piccoli interessi di partito sulla tenuta morale e civile della più importante città italiana.
Il marciume, il decadimento che stanno affiorando dall’inchiesta sulla mafia capitale, sia per consistenza e ramificazione, sia per le letali conseguenze politiche che ne derivano, richiederebbero qualcosa di più, molto di più. Ci vorrebbe un gesto di grande impatto etico, tanto risoluto quanto responsabile. Un’iniziativa che spezzi visibilmente tutti i fili che hanno legato il Campidoglio al malaffare.

Una discontinuità, uno strappo, un azzeramento. Forse l’unica possibilità per la politica romana di recuperare una credibilità ormai smarrita: poiché non basta più distinguere tra chi è coinvolto e chi no, chi solo un po’, chi del tutto, chi di striscio o anche chi invece del tutto impropriamente.

Quel che si coglie in città, spesso furente e incollerita, è una profonda avversione verso la politica tutta, sia quella dei partiti e delle istituzioni, sia quella amministrativa e gestionale.

Difficile dunque immaginarsi che oggi chicchessia, a prescindere se e quanto responsabile, in linea diretta o indiretta che sia, venga percepito estraneo. Qualcuno certamente sì, ma comunque sempre in un legame, anche il più flebile o vago, con i corrotti e i collusi. È certo una visione sommaria e indiscriminata, che non riconosce meriti o ruoli né è in grado di distinguere, che associa nel marciume anche chi ne risulti lontano e perfino chi si sia opposto. Ma è così che stanno le cose. Del resto cosa volete che provi chi due anni fa, forse senza particolari slanci, è pur sempre andato a votare? Si sente ingannato, tradito: e non può che esprimere contrarietà e perfino disprezzo.

Ed è per questa ragione che oggi a Roma sarebbe necessaria una depurazione politica. Un atto di coraggio. Via tutti. La nuova amministrazione si formerà quando sarà possibile. Quando candidati, liste e coalizioni saranno in condizione di riaprire una relazione onesta e pulita con la città. Quando chi chiederà voti e consensi lo potrà fare a testa alta.