Diverse persone sono rimaste uccise – 8 secondo le autorità, almeno 30 secondo l’opposizione – in distinti episodi che hanno insanguinato l’altro 1-0 celebrato domenica scorsa nel mondo, a circa 6 mila km da Barcellona.

Hai voglia a definirlo un passaggio «simbolico»: la dichiarazione unilaterale d’indipendenza delle regioni anglofone del Camerun, paese con 22 milioni di abitanti, «francofono» quasi all’80%, si è confermata indigeribile per il governo centrale di Yaoundé, che ha imposto il coprifuoco e indurito la repressione di polizia e militari nelle due regioni ribelli confinanti con la Nigeria, nel nord ovest e nel sud ovest del paese.

A BUEA (SUD-OVEST) e Bamenda (nord-ovest), i due capoluoghi, gli scontri sono andati avanti anche ieri. Così anche a Kumba nel sud-ovest: in vari punti della città, roccaforte dei secessionisti, sventola la bandiera a strisce bianche e celesti dell’Ambazonie, il nome scelto per la presunta repubblica separatista. Qui e a Ndop (nord-ovest) si registrano un numero imprecisato di morti. Tra le vittime di Kumba figurano anche tra tre e cinque detenuti della locale prigione che approfittando della confusione hanno inscenato un incendio e tentato la fuga. Originario dell’area, John Fru Ndi, anziano leader del Fronte socialdemocratico, la prima forza di opposizione del paese, denuncia almeno 200 arresti ingiustificati da parte del regime.

TRA I TANTI CONFLITTI generati dal colonialismo e dal post-colonialismo in Africa, quello che agita da sempre il Camerun indipendente e riunificato occupa un posto particolare. In “principio” era il Kamerun tedesco, uno dei rari possedimenti africani di Berlino, inequamente spartito tra Francia e Regno unito dopo la Prima guerra mondiale. E dunque riunificato nel 1961, all’indomani dell’indipendenza.

Nella querelle che riguarda l’ex «Camerun meridionale britannico» l’irrigidimento identitario avviene intorno al segno più evidente impresso sulle società locali dalle potenze coloniali: la lingua. Ma non è solo questione di vocabolario, il conflitto riguarda soprattutto il sistema educativo e l’ordinamento giuridico, la loro «francesizzazione» forzata, che si accompagna a un ambito più classico di discriminazioni economiche, diritti negati, marginalizzazione.

È L’ANNOSA QUESTIONE anglophone, mai risolta, che è tornata ad infiammarsi nell’ultimo anno. A inizio 2017 le autorità centrali erano arrivate a tagliare per tre mesi i collegamenti internet alle zone ribelli, con un grave danno per le mancate transazioni economiche che è ricaduto anche sulla maggioranza francofona. In febbraio ci si è messo invece il calciatore della nazionale Fabrice Ondoa, francofono di Bamenda, che ha dedicato la Coppa d’Africa appena vinta alla sua città, in polemica con il governo centrale. Lo scorso 22 settembre prova di forza dei separatisti, con 50 mila persone in piazza. E domenica 1° ottobre – nel 56° della riunificazione, in sincronia involontaria con la “rumba catalana” – lo strappo annunciato. Gesto unilaterale e non proprio unanime: la maggioranza vorrebbe un ritorno al federalismo delle origini, sparito dalla Costituzione dopo il referendum del 1972. Una ristretta ma combattiva minoranza punta invece alla secessione.

I FATTI DRAMMATICI di queste ore – persino la Ue, forse per dissimilare il silenzio sulla Spagna, ha invitato le parti alla massima ragionevolezza – potrebbero turbare un potere altrimenti imperturbabile, con l’eterno Paul Biya ai comandi. Uno dei presidenti più longevi del continente (al potere dal 1982) e meno tollerante nei confronti del dissenso, di qualunque matrice esso sia, è accusato da dentro e fuori il paese (Amnesty in primis) di governare con metodi brutali. Quando imprigiona i giornalisti per un articolo, gli avvocati per una denuncia, rapper e cantanti popolari come Lapiro deMbanga per uno sfottò in rima, la questione anglophone forse scivola in secondo piano. Ma molti camerunensi hanno sorriso amaramente ieri, nel sentirlo condannare «la violenza di strada e la ribellione alle autorità» premettendo che «in Camerun non è proibito manifestare».