Se il suo intento era quello di spaventare e disperdere i manifestanti delle industrie tessili di Phnom Penh, il piano di Hun Sen sembra aver avuto successo. A tre giorni dagli scontri di Vreng Seng Road, durante i quali i soldati dell’esercito hanno aperto il fuoco sui manifestanti che chiedevano l’incremento dei salari minimi, uccidendone quattro e ferendone gravemente più di venti, l’attività agli stabilimenti tessili del Canadia Industrial Park non è ancora ripresa a regolare regime, e nessuno sa dire quando ricomincerà a farlo.

Alle sette di lunedì mattina molte persone mancano all’appello per la riapertura delle fabbriche, e piccoli capannelli si formano qua e là sui viali che separano le due fila di circa quaranta cadenti capannoni color ocra. Molti di loro non andranno al lavoro e torneranno a casa spaventati dai camion di soldati governativi armati di Ak47 che assediano il complesso, piantonando anche il cancello che separa il parco industriale dall’area residenziale dove vivono i lavoratori con la scusa di «prevenire i disordini».

Lavoratori e opposizione

La maggior parte dei lavoratori è rimasta nei district, nelle campagne, dove chi ha potuto permetterselo è andato a rifugiarsi al riparo delle famiglie nonostante il governo abbia invitato tutti a tornare al lavoro. Persino i manager aprono gli stabilimenti ai giornalisti per mostrare l’anomalia della situazione: in alcune fabbriche meno della metà del personale composto per lo più da giovanissime ragazze occupa le lunghe file di banchi di macchine per cucire, altre fabbriche sono rimaste chiuse perché non si sono presentate più di dieci persone al lavoro.

I quattro ragazzi morti durante gli scontri con la polizia avevano un’età compresa tra i 25 e i 29 anni, e assieme ai propri compagni stavano portando avanti da mesi una battaglia per l’aumento dello stipendio mensile da 80 a 160 dollari per i lavoratori del Canadia Park, che produce per marchi internazionali come H&M, Adidas, Puma, Gap e Walmart. Il giorno dopo aver dato l’ordine di aprire il fuoco sulla folla, il governo ha concesso l’aumento fino a 100 dollari. Oltre ai morti e ai feriti, ventitré persone sono state arrestate dalla polizia, ed è stato denunciato che a tredici di loro, accusati di distruzione della proprietà privata sotto circostanze aggravanti, sono stati negati i diritti legali alla difesa.

Quello dei lavoratori delle industri tessili non è l’unico grande problema per il governo di Hun Sen, che ha accusato per i fatti del Canadia Park il Cambogian National Rescue Party (Cnrp), il partito di opposizione che da mesi invoca nuove elezioni denunciando l’irregolarità di quelle dello scorso luglio.

Sabato scorso, qualche ora dopo le sparatorie in Vreng Sreng Road, soldati dell’esercito e personaggi non identificati armati di mazze hanno sgomberato e distrutto i capannoni del Freedom Park, il parco occupato da mesi dai manifestanti del Cnrp – equivalente cambogiano del Democracy Monument di Bangkok – e dal quale era partita lo scorso 29 dicembre la più grande manifestazione di piazza da parte del popolo Khmer, con centinaia di migliaia di persone dei gruppi sociali più disparati (tra cui lavoratori, agricoltori e monaci) in marcia su Phnom Penh contro il Cambodian People’s Party di Hun Sen. Il parco è attualmente circondato dai militari che non lasciano entrare nessuno.

I muscoli di Hun Sen

L’impressione è che Hun Sen, alla sfida più dura dei suoi oltre 28 anni di governo ininterrotto, abbia voluto mostrare i muscoli e abbia approfittato dell’«incidente provocato» del Cambodia Park per colpire tutti i movimenti di opposizione. L’occupazione del Freedom Park riveste anche un ruolo fortemente simbolico poiché lo stesso parco era stato designato dalla controversa legge sulle manifestazioni del 2009 come il luogo della libera espressione, in cui erano possibili manifestazioni di massa – sebbene la legge avesse posto un tetto massimo di duecento persone.

Il ministero dell’Interno ha emanato una comunicazione che informa che tutte le proteste e le dimostrazioni sono vietate «finché non siano state ripristinate la sicurezza e l’ordine pubblico», mentre i membri della comunità nazionale e internazionale (riferendosi forse agli ignari turisti appollaiati nei ristoranti del lungo fiume a due passi dal Freedom Park?) invitano a mantenere la calma e a evitare di farsi coinvolgere in «qualsiasi tipo di attività illegale che potrebbe avere conseguenze negative per l’interesse nazionale».

Il governatore di Phnom Penh, Pa Socheatvong, ha ordinato alle autorità di disperdere tutte le manifestazioni «anarchiche» nella sua città. Hun Sen sta attuando la politica del pugno di ferro per evitare che la situazione gli sfugga di mano e le proteste degenerino in un’escalation come sta accadendo nella vicina Thailandia, ma di fatto ha trasformato Phnom Penh in uno stato di polizia, attirando l’attenzione internazionale e i richiami, per ora solo verbali, di Unione europea e Stati uniti.

Non bastasse, il tribunale della capitale ha convocato per il prossimo 14 gennaio i due leader del Cnrp, Sam Rainsy e Kem Sokha, per rispondere dell’accusa di incitazione al crimine e al disordine sociale. Seppure il Cnrp stia da tempo corteggiando i lavoratori del tessile affinché si uniscano a loro nelle lotte antigovernative – mentre larga parte di questi vorrebbe mantenere la partita solo sul piano della lotta per l’aumento salariale – e nonostante Hun Sen non sia nuovo a questi e altri mezzi per eliminare i leader dell’opposizione, il suo governo, ormai sovraesposto, questa volta non si trova nella posizione ideale per potersi permettere di incarcerare i due leader dell’opposizione senza perdere l’ultimo barlume di credibilità democratica. Forse Hun Sen spera che Rainsy ripeta la fuga del 2009, quando si rifugiò in auto-esilio in Francia dopo un mandato d’arresto spiccato per incitamento alla rivolta per fatti correlati alla rimozione di elementi di demarcazione territoriale con il Vietnam nella provincia di Svay Rieng.

Ma Rainsy ha già fatto sapere che questa volta si presenterà, e il 14 gennaio potrebbe essere il primo appuntamento per capire come si evolverà la situazione che in questo momento sembra più che mai instabile. Il Cnrp deve cercare di portare quanto prima dalla sua gli operai del tessile – che per il solo fatto della loro massiccia presenza nella capitale hanno un peso politico maggiore rispetto agli agricoltori – mentre il governo cercherà di trovare l’accordo sul minimo salariale per mettere fine alle loro proteste.

La paranoia vietnamita

Il giorno prima del 14 gennaio, nella vicina Thailandia prenderà il via il piano di occupazione della capitale da parte delle forze di opposizione al decennale governo degli Shinawatra e sebbene i due movimenti non siano correlati, l’esito delle rivolte nel regno dei sorrisi potrebbe influenzare il morale dei dissidenti cambogiani, un po’ come avvenuto durante la primavera araba. Rainsy ha annullato il grande corteo di protesta previsto per domenica e ha invitato i propri supporter a mantenere la calma finché il partito non troverà nuovi alternative di protesta non violenta.

Tuttavia, tra gli spaventati cittadini della capitale, dopo gli scontri di Vreng Seng road si è diffuso uno strano clima di paranoia anti-vietnamita, dovuto ad antichi rancori ma in parte alimentato da alcune dichiarazioni dello stesso Rainsy, per cui molti manifestanti ritengono che sarebbero stati soldati vietnamiti ingaggiati dall’esercito khmer, ad aver aperto il fuoco su di loro, e nella giornata di ieri una folla inferocita ha preso d’assalto e distrutto un coffee shop di proprietà vietnamita e minacciato di riservare lo stresso trattamento a tutti i vietnamiti presenti a Phnom Penh.

Cosa curiosa, le stesse illazioni circolavano tra i manifestanti tailandesi al Democracy Monument, ma questa volta secondo le voci i soldati ingaggiati dall’esercito Thai per sparare sui connazionali erano proprio loro, i Khmer.