Il calcio italiano ha un sindaco che si chiama Marco Osio. Giocava in un ruolo che adesso non esiste più, la mezzapunta: quello con i piedi buoni che sta tra il centrocampo e l’attacco ma non è un centrocampista o un attaccante, o forse entrambi i ruoli insieme. Attenzione: non un trequartista, invenzione del calcio di fine anni ’90. Semplicemente un tipo di giocatore che adesso gli allenatori non saprebbero inserire in uno dei loro schemi, ma che fino a vent’anni fa sembrava imprescindibile.

Alfiere del Parma di Nevio Scala, cominciarono a chiamarlo «sindaco» alla fine degli anni ’80: «C’era una questione con l’amministrazione comunale sullo stadio – racconta lui -. Noi stavamo vincendo il campionato di serie B e c’era bisogno di fare alcuni lavori. Dalla curva, un giorno, spuntò uno striscione con scritto ‘Osio sindaco’. Ancora oggi c’è chi mi chiede se in passato io abbia fatto politica». Marco Osio di quella squadra era il talento più puro: zazzerona di capelli, barbetta incolta e fama da ribelle. Un piccolo aneddoto: prima della finale di Coppa delle Coppe del 1993, a Londra, Osio non se ne stava ad aspettare il momento fatale con le mani in mano come i suoi compagni, ma era da Tower Records – oggi megastore della Virgin – in cerca di bootleg di gruppi come Siouxsie and the Banshees, Cure, Echo and the Bunnymen. Tornò in albergo a pochi minuti dalla tradizionale conferenza stampa della vigilia del match. Qualche ora dopo il Parma alzò la coppa al cielo dopo aver travolto un volenteroso ma inconsistente Anversa.

Poi un paio d’anni a Torino, un lungo infortunio e l’approdo in Brasile, nel Palmeiras. Era la stagione 1995/1996, la formazione in bianco e verde stravinse il campionato paulista, e a guardare i nomi non c’è da stupirsi: Cafu, Rivaldo, Flávio Conceição. Osio scese in campo venti volte e segnò un gol: «Contro lo Juventude, un piattone da dentro l’area dopo un cross dalla sinistra», ricorda. Dall’altra parte del mondo, Osio ci finì quasi per caso: «Mi fu offerta questa possibilità dal presidente brasiliano di Parmalat. Io mi ero appena sposato e con mia moglie decidemmo di accettare. Fu un’esperienza molto positiva, giocavo con dei campioni assoluti».

Sta per cominciare il mondiale in Brasile, ma il clima non è così disteso, in molti sono scesi in strada a protestare per l’enorme differenza tra le condizioni di vita nel paese e il costo altissimo della manifestazione della Fifa.

È cambiato tutto, in Brasile, rispetto a quando ci andai a giocare io, vent’anni fa. È una questione soprattutto di mentalità: hanno capito che le condizioni sociali, volendo, potrebbero migliorare e vedono i Mondiali come un grande spreco. Certo, poi lì il pallone rimane importantissimo per loro, ma nel mondo del calcio ci sono cose che hanno lasciato stupito persino me.

Ad esempio?

Gli orari delle partite vengono spostati in base a quello che dicono le televisioni. Succede spesso che un incontro slitti di qualche ora, o di un giorno, perché c’è la puntata decisiva di una telenovela, o perché si è arrivati al finale di un programma molto seguito. Vedi, le tivvù contribuiscono molto alla sopravvivenza economica dei club e ti fanno giocare quando vogliono loro. È facile dunque che si scenda in campo tre o quattro volte alla settimana. Ma questo può accadere anche per altri motivi: le squadre più importanti fanno diverse tournée in giro per il mondo durante l’anno, e in quelle settimane il campionato va comunque avanti. Poi si recuperano gli incontri saltati.

In Brasile si gioca molto più che in Europa: quasi un centinaio di partite l’anno…

Sì, ma non è un problema: in Brasile si lamentano se si lavora troppo, non se si gioca. Le squadre hanno rose molto ampie, di solito, poi c’è la possibilità di fare contratti mensili ai giocatori. È tutto più pratico rispetto al nostro calcio. È vero poi che si gioca tantissimo, ma anche la preparazione atletica si basa più sulla palla che sulla corsa: deve correre il pallone, non i giocatori.

Dalle nostre parti è tutto l’opposto, calcisticamente parlando.

È vero: negli ultimi vent’anni è emersa con prepotenza la figura del preparatore atletico, si cura moltissimo l’aspetto fisico. Da giocatori di calcio si è diventati atleti veri e propri. Questo a discapito dei settori giovanili, ad esempio. I club investono meno sui ragazzi, è una corsa al risultato e basta. C’è anche meno tecnica in campo, oggi. Cioè, va detto che una volta si giocava con meno velocità, adesso invece si corre veramente tanto. C’è più rapidità, più spettacolo.

Ma meno tecnica.

Già. Prendi il Belgio o l’Olanda: lì le squadre lavorano a partire dai ragazzi più giovani, che poi vengono venduti ai grandi colossi pieni di soldi, quelle squadre che non badano alla costruzione di un settore, ma a giocatori già belli e fatti, comprati a suon di milioni.

Oggi girano molti più soldi che in passato, e i bilanci piangono: negli ultimi vent’anni sono fallite più squadre che nei cinquant’anni precedenti. Crede che con il cosiddetto ‘fair play finanziario’ possa cambiare qualcosa, in questo senso?

Trovo giusto che si possa spendere solo quello che si incassa. Anche se poi, comunque, le differenze rimarranno uguali: il Milan, per fare un esempio, guadagnerà sempre più del Lecce. Ma almeno così si potrebbero salvare i bilanci.

Concludiamo tornando ai Mondiali. Qual è il pronostico di Marco Osio?

Favorito direi che è il Brasile, ma bisogna fare attenzione comunque, non è che potranno vincere solo perché sono i padroni di casa. Poi c’è la solita Argentina, la Spagna, la Germania. La sorpresa potrebbe essere il Belgio, che farà giocare la sua generazione di fenomeni. Sono così forti che si sono potuti permettere di lasciare a casa pure un fenomeno come Nainggolan. L’Italia è sempre una squadra scorbutica, per così dire, una di quelle che nessuno vorrebbe incontrare. Certo, magari non ci sarà molto talento, ma nei momenti più difficili gli azzurri hanno sempre dimostrato di essere una formazione molto forte. D’altra parte, anche nel 2006 non eravamo assolutamente i favoriti, eppure vincemmo.

 

IL PERSONAGGIO

Era il 14 settembre del 1986 quando Marco Osio si impose al centro del dibattito degli appassionati italiani di calcio: con una potente incornata al culmine di un gran contropiede, il poco più che ventenne centrocampista segnò il gol che permise alla sua squadra, l’Empoli, di superare l’Inter di Zenga, Altobelli e Rumenigge. L’anno successivo lo ritroviamo in serie B, nell’ambizioso Parma che in pochi anni infilò una serie di successi: sbarcò per la prima volta in serie A, poi vinse in sequenza la Coppa Italia (edizione 1991/1992, finale vinta 2-0 contro la Juve, Osio segnò la seconda rete) e la Coppa delle Coppe l’anno successivo. Dopo la fortunata esperienza con i ducali, però, per Osio arrivarono due stagioni difficili a Torino, segnate da un pesante infortunio che lo tenne fuori quasi un anno. In Brasile la resurrezione al Palmeiras, con la vittoria del campionato paulista. Al ritorno in Italia, le porte del grande calcio si erano chiuse, e Osio passò gli ultimi anni della sua carriera di calciatore a girovagare nelle serie minori. Appese le scarpette al chiodo, cominciò la carriera da allenatore. L’ultima stagione è andata male, sulla panchina del Rimini, in Seconda Divisione (la vecchia serie C2). Dopo una partenza a razzo, la squadra si è arenata e a febbraio è arrivato l’esonero. Riassunto dopo appena un mese, Osio ha ritrovato la sua squadra quasi completamente allo sbando e, alla fine, è arrivata l’inevitabile retrocessione.