In Bosnia-Erzegovina è la notte della ribellione.

Quella di Sarajevo, dove la coalizione dei quattro (Popolo e Giustizia, Nip; il partito socialdemocratico, Sdp; Nasa Stranka; Lista indipendente bosniaco – erzegovese, Nbl) manda in soffitta il partito nazionalista bosniaco-musulmano (Sda), conquistando tre dei quattro comuni della capitale: Centar, Novo Sarajevo, Ilidza.

È la ribellione di Banja Luka, capoluogo della Republika Srpska (una delle due entità della Bosnia-Erzegovina a maggioranza serba, ndr) dove il 27enne Drasko Stanivukovic, candidato del Pdp, principale partito d’opposizione, riesce a strappare dopo 22 anni il governo della città all’Snds, creatura dell’uomo forte di Banja Luka, il nazionalista serbo-bosniaco Milorad Dodik.
Non si è votato invece a Mostar, capoluogo dell’Erzegovina a maggioranza croata, dove le elezioni si svolgeranno il 20 dicembre per la prima volta dal 2008. Eppure anche l’Hdz, partito nazionalista croato-bosniaco, subisce una pesante sconfitta nelle roccaforti di Tomislavgrad e Prozor-Rama.

Un terremoto senza precedenti che assesta un duro colpo ai tre partiti che hanno dominato la scena politica del Paese negli ultimi venti anni. Il cui epicentro sono le città della Bosnia-Erzegovina, appena avvertito invece nelle zone rurali dove l’Sda, l’Snds e l’Hdz riescono a tenere le posizioni.

Un terremoto che dà voce all’insofferenza dei cittadini verso un sistema politico corrotto che affonda le radici nel dopoguerra e che per anni è riuscito a stare in piedi grazie a una rete clientelare che gli ha permesso di controllare tutti i settori della società. Il voto di domenica racconta quindi una ribellione a quella piovra che si è svelata in tutto il suo cinismo durante la pandemia, quando alcuni esponenti della classe dirigente sono stati travolti da scandali legati alla gestione del sistema sanitario.

Il voto in Bosnia si pone inoltre sulla scia di cambiamenti già registrati in Montenegro, Kosovo e ancor prima in Macedonia del Nord e sembra prefigurare l’ingresso della regione in una nuova e delicata fase contraddistinta da un cambio generazionale al potere negli Stati dei Balcani. Una generazione insofferente alla corruzione, che guarda all’Europa a volte con lo stesso fervore con cui si professa nazionalista. È il caso di Albin Kurti in Kosovo, di Zdravko Krivokapic, il premier nazionalista serbo designato del Montenegro, ma è anche il caso di Stanivukovic, il giovane avversario di Dodik, noto per le sue posizioni nazionaliste.

In direzione contraria Srdjan Mandic, vicepresidente di Nasa Stranka, eletto sindaco nel più importante municipio della capitale, Centar. Economista, ex direttore della testata Oslobodjenje, Mandic, di famiglia comunista e partigiana, è uno di quei serbi che hanno combattuto tra le file dell’esercito bosniaco nella guerra degli anni Novanta, cittadino di Sarajevo come si è più volte definito, è invece l’espressione di una diversa visione della società, una società inclusiva, sanata dalle divisioni provocate dal conflitto.

Si tratta quindi di un terremoto non privo di contraddizioni che inevitabilmente andrà incontro alle resistenze delle vecchia guardia che tenterà di ostacolare il cambio al vertice. In questo senso vanno le parole di Dodik, che ha minacciato ritorsioni verso Banja Luka, una mossa che rivela la delegittimazione e la debolezza del suo partito. Il fatto poi che in Albania e ancor più in Serbia non si prospetti un ricambio della leadership fa presupporre che i cambiamenti messi in moto da questo terremoto avranno vita molto difficile. Eppure da una parte bisognerà pur cominciare.