Da Pristina ai fronti del Medio Oriente, a combattere nelle file dello Stato islamico. La storia è stata raccontata nei giorni scorsi dall’Espresso, con un’inchiesta sul bacino islamista kosovaro. Ma non è solo dall’ultimo degli stati post-jugoslavi che si va in prima linea in nome del jihad. S’imbocca la via della guerra santa anche dalla Bosnia, dal Sangiaccato serbo (distretto a maggioranza musulmana), dal Montenegro, dall’Albania e dalla Macedonia. Da ogni angolo di Balcani, praticamente.

La faccenda tra l’altro non è nuova. Già da tempo se ne parla sulla stampa locale e internazionale. L’inchiesta più dettagliata è stata firmata lo scorso ottobre da due giornalisti francesi: Jean-Arnault Dérens e Laurent Geslin. Il loro lavoro, intitolato Les Balkans au défi d’une radicalisation de l’Islam (http://religion.info/pdf/2013_10_Derens_Geslin.pdf) e citato in Italia da Rodolfo Toè per lindro.it, indaga la penetrazione del radicalismo islamico nell’oltre Adriatico, legando le partenze alla volta di Siria e Iraq a sfaccettature culturali, storiche e politiche.

Il caso più noto è quello della Bosnia. Al tempo della guerra (1992-1995) le forze armate dei bosgnacchi, la componente musulmana del paese, beneficiarono del contributo di una brigata internazionale di impronta radicale, denominata El Mudzahid. Qualcuno dice che senza questo appoggio i bosgnacchi non avrebbero retto il confronto con serbo-bosniaci e croato-bosniaci, foraggiati da Belgrado e Zagabria. Altri ritengono che i mujaheddin fecero in Bosnia la prima prova generale della guerra santa. Vero è, comunque, che dopo la fine delle ostilità diversi combattenti sono restati nel paese, ottenendo la cittadinanza.

Questa presenza, unita ai soldi sauditi piovuti a Sarajevo dopo il conflitto, finalizzati più a indottrinare che a ricostruire una nazione sventrata, ha rimodulato mano a mano l’assetto dell’Islam locale, tradizionalmente moderato anche se fattosi più nazionalista con la guerra, spingendone alcuni segmenti verso l’estremizzazione. È questo il perimetro all’interno del quale il jihadismo fa nuovi proseliti, anche grazie a una situazione sociale caratterizzata dall’assenza di lavoro, risorse e prospettive. Generalmente i combattenti, in Bosnia e nella regione, si recano in Turchia e da qui in Siria, da dove eventualmente proseguono in Iraq.
Il governo bosniaco, che nel 2007 aveva revocato la cittadinanza a una cinquantina di ex mujaheddin su pressione occidentale, stima che circa centocinquanta cittadini si siano recati in Siria e Iraq. Venti i morti, sempre secondo le autorità, che nei giorni scorsi hanno effettuato sedici arresti nei confronti di potenziali guerriglieri, pronti a recarsi in Medio Oriente.

Qualche numero anche sul fronte kosovaro. Anche in questo caso sarebbero circa centocinquanta i cittadini, tutti di etnia albanese, che si sarebbero uniti alle milizie islamiste della Siria e dell’Iraq, riporta l’agenzia France Presse.

Se la vicenda bosniaca ha le sue origini nella guerra, quella kosovara si è sviluppata dopo il conflitto. Il movimento che ha imbracciato le armi contro la Serbia, l’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), sostenuto dall’occidente, non manifestò mai pulsioni religiose (gli albanesi tendenzialmente sono laici), né ricorse a brigate dichiaratamente islamiche. Il suo corredo genetico era caratterizzato da nazionalismo e affarismo criminale, stando a quello che è emerso da diverse inchieste e ricostruzioni, non soltanto giornalistiche.

«A Pristina il problema del radicalismo è emerso nel dopoguerra, in effetti. Siccome il Kosovo è un paese instabile per definizione, con istituzioni fragili e con un tasso di corruzione alto, le charity islamiche, che spesso agiscono come cavallo di Troia del radicalismo, sono riuscite a inserirsi in questa cornice porosa», spiega Lavdrim Lita, giornalista e analista di questioni strategiche albanese. Jean-Arnault Dérens e Laurent Geslin, che indicano nella città etnicamente divisa di Mitrovica il principale centro del radicalismo islamico del Kosovo, sostengono dal canto loro che i più sensibili al jihadismo sono i giovani. Come in Bosnia influiscono carenze di lavoro e futuro.

Davanti al fenomeno jihadista i paesi balcanici stanno cercando di reagire mobilitando l’intelligence e aumentando le azioni di contrasto, anche preventive. Si lavora anche sul fronte legale. Bosnia, Macedonia e Albania – anche in queste ultime due nazioni si sono registrati arruolamenti – hanno appena approvato delle norme che puniscono con una detenzione severa coloro che partecipano a operazioni di guerra all’estero. La Serbia e il Kosovo dovrebbero varare presto un’analoga misura.

Sempre Jean-Arnault Dérens e Laurent Geslin sottolineano che la questione jihadista nei Balcani non va tuttavia interpretata come una cosa sui generis. «L’Islam balcanico – scrivono – non forma un universo isolato, ma vive dentro una società islamica mondializzata, che è oggetto di pressioni e contraddizioni multiple». Anche Tim Judah, balcanista dell’Economist, è dello stesso avviso. «Onestamente non credo ci siano grosse differenze tra i jihadisti dei Balcani e quelli dell’Europa occidentale. In ogni comunità islamica continentale ci sono frange estremiste».