Accade talvolta che la riedizione di un saggio di un grande storico e critico d’arte, quale è stato Cesare Brandi, ci faccia riflettere non solo su cosa significhi un sistema teorico unitario, ma anche sull’importanza della qualità letteraria di una scrittura saggistica. Nel Disegno dell’architettura italiana pubblicato da Einaudi nel 1985 e ora riedito da Castelvecchi (pp. 510, euro 39), è possibile verificare come esposizione storica ed esegesi estetica siano in Brandi argomenti sempre pertinenti ed efficaci in una forma narrativa altissima e ormai desueta alla corrente produzione saggistica di architettura.

Al «Disegno» lo storico senese approda dopo una lenta messa a punto di concetti artistici e filosofici non sempre di immediata intuizione. Ha ragione Cesare de Seta a evidenziare nella sua prefazione che questo «non era certo un manuale, ma era destinato ad un pubblico mediamente colto». Occorre innanzitutto anticipare che il sistema teorico brandiano andò mano mano precisandosi nel corso di una «vita operosissima» nella quale, parallelamente all’interesse per le arti plastiche e figurative, egli matura anche quello per l’architettura. Nei testi che la riguardano, dall’Eliante o dell’Architettura (1956) a La prima architettura barocca (1970), passando per Struttura e architettura (1967) e includendo Teoria generale della critica (1974), gli argomenti riflettono non solo gusti e passioni personali, ma riverberano polemiche e dibattiti degli anni nei quali l’industrializzazione e la cultura di massa trasformano le città e le campagne italiane.

Si va dal confronto-scontro sull’eredità del Movimento Moderno – personificato sulla scena di Eliante nei dialoghi tra il razionalista Cortese-Argan e l’organico Delano-Zevi – ai problemi critici e metodologici del restauro, fino alla questione dell’«ambientamento» dell’architettura contemporanea nei centri storici e nel paesaggio antropizzato. È questa, per Brandi, incapace di «schiudersi» in un «tema spaziale» nuovo come invece è accaduto per quella del passato. «L’architettura, nella civiltà odierna – scriverà in Le due vie (1966) – avvicinandosi sempre più alla macchina come all’oggetto in serie, ha finito per costituire proprio una delle antitesi a quel desiderio di integrazione che l’uomo moderno chiede alle arti figurative».

Messa da parte, quindi, l’architettura contemporanea Brandi nel suo «Disegno» si occupa del periodo che va dal secolo VIII al Settecento. L’esposizione inizia dalla chiesa di San Pietro a Tuscania – un monumento «irrituale», ma che «riassume chiaramente la futura effigie della prima architettura italiana» – e si conclude con il Valadier e la sistemazione a Roma di Piazza del Popolo: «l’ultimo grande dono fatto dal papato» e con la quale «inizia e si chiude la storia architettonica dell’Ottocento italiano». In mezzo si dispongono con ordine diacronico i monumenti medievali – Sant’Ambrogio a Milano, San Miniato a Firenze, la Cattedrale di Pisa e il Duomo di Modena – che elaborano temi del tutto originali dal resto delle coeve esperienze europee, ma che Brandi discute alla ricerca di quel «nucleo generatore comune» che le possa far considerare architetture italiane e «non solo perché si trovano in Italia».

Si prosegue con il Quattrocento: il secolo nel quale l’avvento di una «nuova architettura» compone e nutre l’Umanesimo europeo restando egemone per quattro secoli. È con Brunelleschi a Firenze che si pone in atto il radicale cambiamento della concezione dello spazio (gotico) ed è nella «strutturazione prospettica» che si rende per la prima volta «interno anche lo spazio esterno». Chi si prepara alla lettura di questo, come di altri saggi riguardanti l’architettura di Brandi dovrà entrare in confidenza con i «dati fenomenici» che costituiscono la sua teoria.

L’architettura per lo studioso senese è un’arte dello spazio che contiene i due estremi inscindibili e interagenti di interno e di esterno. Lo sviluppo storico dell’architettura è determinato da come si configurano le relazioni tra queste due polarità, le quali producono insieme, secondo un determinato codice, il «tema spaziale». Senza la rappresentazione del «tema spaziale» non vi è architettura, ma solo «tettonica». Ad esempio, nei monumenti tardo-romani e bizantini il tema dell’interno restò preponderante, mentre con l’architettura gotica francese accade che l’ingresso della luce con l’invenzione dell’arco rampante e la conseguente riduzione degli spessori murari, si ribaltino le condizioni: dall’interno all’esterno. Per Brandi l’architettura gotica italiana s’è contraddistinta nel «rifiutare tutte quelle locuzioni architettoniche che la caratterizzavano come esterno».
La novità brunelleschiana sarebbe «apodittica» se non si cogliessero queste differenze. Non se ne comprenderebbe, inoltre, il suo avanzamento che attraverso l’invenzione della prospettiva «ingloba il tema dell’interno anche all’esterno». Nel Cinquecento questi due estremi sono resi «permeabili» nel tempietto romano di San Pietro in Montorio di Bramante, con il quale si realizza un radicale rinnovamento dei modelli tramandati dall’antichità classica, anche se è Michelangelo il «grande evento» del XVI secolo: l’inventore di «nuove parole» e dotato di una «vitalità irruente» fino al suo periodo tardo. A Roma, a Santa Maria Maggiore, in San Giovanni dei Fiorentini o in Santa Maria degli Angeli, già pone le premesse, nella «compenetrazione di esterno e interno», della straordinaria stagione barocca.

Anticipata dal manierismo del Maderno (Santa Susanna) e dalle precoci interazioni tra esterno e interno di Girolamo Rainaldi (San Andrea della Valle), si dispiega l’architettura barocca di Francesco Borromini, Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona, e successivamente quella di Carlo Fontana e Guarino Guarini. Sono queste dedicate al Barocco tra le pagine più dense e ricche di intuizioni e suggestioni interpretative, quelle per le quali il «Disegno» di Brandi resterà un «solidissimo» caposaldo nella storia dell’architettura italiana.