L’immagine di una turista in bicicletta davanti alla porta di Brandeburgo, la cui vista è parzialmente oscurata dal muro che ha diviso Berlino sino al 9 novembre di 25 anni fa, è forse tra le più significative di ciò che quel muro ha rappresentato ed ancora rappresenta per la storia tedesca in primo luogo, ma anche dell’Europa e del mondo intero. Quella turista è Tilda Swinton, che 26 anni fa, nel 1988, prese parte al viaggio che la regista Cynthia Beatt – nata e cresciuta in Giamaica ma residente da lunga data nella capitale tedesca – volle fare lungo il confine tracciato dalla barriera che divideva la parte filosovietica di Berlino da quella occidentale. Cycling the Frame – il film che apre la sezione Da Kreuzberg alla Garbatella, il Muro che (non) c’è al Festival Arcipelago – mostra l’attrice inglese ancora sconosciuta ai più girare in bici per la città e riflettere su ciò che vede e ciò che non può vedere. Precede solo di un anno lo storico evento, ma già reca i segni premonitori di ciò che accadrà se la ragazza in bicicletta, oltre ad augurarsi questa caduta, si sente di affermare che «everything will be as it should be», tutto sarà come deve essere.

Lo stesso augurio che porta con sè il cortometraggio dedicato dal regista americano George Lucas alla gioventù berlinese che non può attraversare il confine tra Est e Ovest molti anni prima, nel 1966, quando ancora l’evento che innescò il crollo della stessa Unione Sovietica era lungi da venire. Freiheit, libertà, è il titolo di questo brevissimo lavoro del regista di Guerre Stellari, ancora studente alla scuola di cinema ed imbevuto di quell’amore per il cinema europeo che contraddistingue i registi fondatori della New Hollywood. Un cortometraggio in cui vediamo un ragazzo cercare la libertà del titolo a prezzo della sua stessa vita, e in cui sentiamo solo i suoni della natura e una voce fuori campo a commentare i fatti, con uno stile che ricorda molto più la Nouvelle Vague che i kolossal per cui Lucas è conosciuto in tutto il mondo, ma in cui il concetto di libertà ha un’assolutezza profondamente americana e più avulsa dalla realtà quotidiana di quella divisione che è invece al cuore del lavoro di Cynthia Beatt.

Il viaggio in bicicletta di Tilda Swinton mette infatti in evidenza più di tutto l’assurdità di quella divisione, per cui nell’esperienza di una turista «qualsiasi», che gira fra i quartieri, i parchi ed i laghi di Berlino, appaiono all’improvviso i cartelli che indicano la fine delle rispettive zone d’influenza – inglese, americana, francese – a segnalare la presenza di un confine nel bel mezzo di un lago o di un fiume. E lo sguardo non può spingersi più di tanto oltre la barriera segnata dal muro, mentre i berlinesi dell’Ovest vengono descritti come gli abitanti di un’isola che ignorano l’esistenza del mare. Cycling the Frame trova però la propria completezza solo in un’opera di molto successiva – anch’essa proiettata al Palladium alla Garbatella – The Invisible Frame, in cui regista e attrice tornano negli stessi luoghi dopo ventuno anni. Il film si apre con la medesima immagine che concludeva Cycling the Frame: la ragazza – ormai donna – davanti alla porta di Brandeburgo, adesso libera dal muro. Ma il viaggio in bici di Tilda Swinton non è meno malinconico a tanti anni di distanza, e il suo ritorno nei posti già visti nel primo film accentua la sensazione che il muro sia come una ferita aperta che ancora infesta Berlino, con cui bisogna fare i conti e che evoca l’esistenza ancora oggi di altri muri, come quello di Gaza, ai cui abitanti va la dedica della regista che chiude il film.

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La dovuta riflessione su un evento così strettamente collegato alla fine dell’Unione Sovietica, e con essa sia della Guerra Fredda che dei regimi comunisti europei, dà anche un senso ulteriore alla presenza al Festival Arcipelago di un Focus sui cortometraggi provenienti dalla Romania, che nello stesso anno della caduta del muro di Berlino fece esperienza della «deposizione», del processo e dell’esecuzione del dittatore Nicolae Ceaucescu.
I cortometraggi di questi registi – tra cui molti nomi più noti ai cinefili come Cristian Mungiu o Cristian Nemescu – coprono il decennio che va dai primi anni duemila ai giorni nostri, e raccontano in modi diversi la vita quotidiana in un paese che nel paesaggio come nella povertà diffusa reca i segni inconfondibili di un passato che ancora una volta è ben lungi dal potersi dire concluso. In Lampa cu caciula di Radu Jude, un padre e un figlio che tanto ricordano i due protagonisti di Ladri di biciclette devono arrivare in città per riparare il malconcio televisore di famiglia, mentre è forte l’eco del nostro cinema anche nei «mostri» e nei santi peccatori alla commedia all’italiana di Valuri di Adrian Sitaru, in cui su una spiaggia rumena si consuma una tragedia che mette a nudo l’empatia e la vigliaccheria in chi meno ci si aspetta.

Zapping di Cristian Mungiu è invece una fantasia dall’ispirazione Orwelliana in una realtà distopica in cui si è letteralmente imprigionati dalla televisione, che dall’essere l’agognato strumento di evasione di Lampa cu caciula diventa la trappola metafora della società moderna. Ma c’è posto anche per la commedia dell’assurdo in Apartamentul di Constantin Popescu, il lavoro che più di tutti fa sfoggio di stile registico, ma in cui il frainteso che regge la vicenda di un marito fedifrago è giocato sull’anonimato dei palazzoni in stile sovietico in cui è facile scambiare un appartamento per un altro.

Passato e presente si intrecciano molto profondamente sia nei lungometraggi che nei cortometraggi, mirando a fare il punto sullo stato attuale delle cose quasi a scoprire le sotterranee assonanze tra il passato eil presente, tra paesi ormai ricchi ed altri rimasti poveri, e su come tutto questo si riflette nello sguardo dei cineasti che, da Berlino o Bucarest, fanno i conti con la Storia.