Giovedì 23 gennaio, dopo un lungo braccio di ferro con i settori che da tempo reclamavano la svalutazione della moneta, la Banca Centrale Argentina, per fare fronte ad un violento attacco speculativo, ha decido di non intervenire più sul mercato valutario a sostegno della propria moneta. In risposta alla crescente domanda di valuta e all’espansione del mercato nero il governo ha annunciato l’abolizione delle misure che restringevano l’acquisto di dollari. La conseguenza è stata un immediato deprezzamento del peso, il più forte degli ultimi dodici anni.

La pressione sulla moneta argentina da parte dei potenti gruppi esportatori di materie prime e il continuo martellare dei principali giornali di riferimento (Clarín e La Nación) è stata una costante che ha contribuito in modo decisivo a provocare una diffusa sfiducia nel peso tra la popolazione. Per chi controlla i media non è difficile incentivare le paure di deprezzamento e alimentare le aspettative di veloci guadagni speculativi. La quotazione del dollaro è esplosa giovedì 23 febbraio quando alcuni settori, in particolare la Shell e la banca HSBC, hanno deciso di commercializzare ingenti somme di valuta a prezzi ben al di sopra del suo valore di mercato. Axel Kicillof, ministro dell’economia ha dichiarato: «C’è stato un forte attacco speculativo, una domanda di acquisto di 3,5 milioni di dollari a 8,40 pesos da parte della Shell, che avrebbe potuto comprare a 7,20 pesos».

I pericoli della crescita

Il modello di sviluppo argentino, portato avanti dopo il default di dicembre del 2001, è stato in buona parte sostenuto dalle esportazioni di materie prime, ma si è contraddistinto per l’ampiamento del mercato interno. L’aumento del potere d’acquisto di settori prima marginali, ha generato in Argentina e in tutti i paesi emergenti, una maggiore domanda e una conseguente accelerazione della circolazione monetaria che si è tradotta poi in inflazione. Oltre a questi eventi si è aggiunta la pressione dei gruppi esportatori di materie prime che hanno deciso di trattenere l’esportazione nei silos, soprattutto soia, speculando con la svalutazione e quindi con maggiori introiti quando la valuta sarebbe rientrata al Paese.

A conferma di tutto ciò Miguel Etchevehere, presidente della Sociedad Rural, affermava la scorsa settimana: «Più che produrre conviene speculare». Si tratta di una lotta per la supremazia tra potere finanziario e politica, la logica della speculazione opposta a quella del lavoro, l’economia contro la società. Il governo ha difeso l’economia dagli attacchi speculativi e ha incentivato la produzione intervenendo con programmi e lavori pubblici, costringendo le banche private a fomentare l’attività economica e combattendo l’economia finanziaria. La Banca Centrale ha promosso misure anticicliche sostenendo la propria moneta e finanziando progetti di sviluppo.

L’Argentina, dopo il fallimento del 2001, non ha più avuto credito, le è stato negato l’accesso al mercato globale di denaro e quindi deve ancora reggersi sul proprio risparmio. La mancanza di credito ha però aspetti positivi: il Paese ha ridotto in modo considerevole il suo debito estero, avendo anni fa estinto quello con il Fondo monetario internazionale. Anche per questo motivo i paesi alla guida della globalizzazione neoliberista non perdono occasione per dare una lezione all’indisciplinata Argentina e avvertire eventuali altri paesi che abbiano la pretesa di tagliare i ponti e tentare in modo autonomo di mettere in atto progetti di sviluppo che escludano la finanza internazionale.

La natura del conflitto

Le misure anticicliche classiche keynesiane dicono che in periodi di recessione si deve investire e in momenti di crescita risparmiare. Dopo gli anni del neoliberismo, la Banca Centrale Argentina ha recuperato il suo ruolo di strumento della politica economica. Superato il default, le riserve che erano arrivate agli inizi del 2011 alla cifra record di 52,6 miliardi di dollari, sono scese alle attuali 29,5. La crisi economica globale ha spinto i paesi emergenti a investire nella produzione e allargare il mercato interno per supplire il rallentamento della domanda di esportazioni verso i paesi del Nord in crisi.

Per la politica economica argentina il risparmio deve servire allo sviluppo. La religione monetarista vuole invece che le riserve restino intaccate, accumulare è la priorità, mentre le urgenze della società possono sempre aspettare. Ogni intervento dello Stato è tacciato di demagogico o populista. L’attività del settore pubblico implica una spesa, da un punto di vista monetario è ovvio che le riserve diminuiscono ed è anche ovvio che le riserve sono limitate e non sono in grado di resistere in eterno. Il prolungarsi della crisi dei paesi del Nord ha contribuito anche a rallentare i processi di sviluppo del Sud.

Sarebbe un errore circoscrivere la svalutazione a una mera questione monetaria. In Argentina è in atto un contrasto tra i gruppi monopolistici e la politica redistributiva attuata dal governo. Da una parte l’economia finanziaria vuole avere la supremazia nella determinazione delle decisioni di politica economica. Dall’altra il governo vuole difendere la società incoraggiando insieme alla crescita la distribuzione, l’inclusione sociale, le politiche fiscali e monetarie per proteggere il livello di occupazione e l’incipiente processo d’industrializzazione, che ha dato vita a oltre 200 mila imprese. Nel contesto di crisi globale, l’economia reale in Argentina cresce, secondo le stime, non proprio amiche, del FMI nel 2013 è stata del 3,5% e prevede che nel 2014 sarà del 2,8. La disoccupazione continua a decrescere: oggi è intorno ad un 6,8% secondo le misurazioni dell’opposizione.

Da parte del governo ci sono stati e ci sono molti errori, distrazioni, misure sbagliate, incompetenze e casi di corruzione, ma il governo ha sempre puntato al recupero del settore pubblico e si è confrontato con i grandi interessi privati. Le scelte politiche possono essere criticate, dibattute e migliorate, ma gli argentini hanno vissuto sulla propria pelle la cecità della legge del mercato, quella che pretende di determinare il valore delle cose ignorando i diritti e destabilizzando l’economia reale.

Un messaggio da Davos

Con la manovra di liberalizzazione del mercato dei cambi lo Stato vuole recuperare la possibilità di gestire la sua politica monetaria, oggi in mano a privati. Questo ambito è stato volutamente trascurato dai governi Kirchner che, consapevoli del rischio di un’accelerazione dell’inflazione, hanno comunque preferito continuare sulla strada dell’aumento della produzione, della distribuzione e del consumo. Dal Forum di Davos, che raccoglie i vertici della finanza globale, Zhu Min, rappresentante del FMI ha detto che sarebbe «più che felice di aiutare l’Argentina». Ma non ci sono più rapporti tra il Fondo e il paese sudamericano che anni fa ha deciso di espellere i suoi rappresentanti giudicandoli colpevoli di aver portato l’Argentina al fallimento.

Non si può prevedere chi vincerà questa battaglia tra speculazione e politica. Dopo il cedimento del governo alla svalutazione, l’opposizione ha chiesto di più dichiarando che le riforme non si devono circoscrivere all’ambito monetario ma devono investire la politica macroeconomica, cioè chiedono tagli, diminuzione della spesa pubblica e arretramento dello stato sociale. Con queste premesse è facile essere catastrofista e scommettere sul cedimento del modello di sviluppo argentino, così come è sempre comodo sostenere i potenti. Proprio per questo motivo l’Argentina ha bisogno del contesto, in primo luogo dell’America Latina e poi della tenuta dei rapporti Sud-Sud.

Forse per questo motivo la presidente Cristina Fernandez Kirchner si è recata all’Avana alla riunione della Cumbre de la Comunidad de Estados de Latinoamérica y el Caribe (Celac). Da Cuba, insieme alla presidente del Brasile Dilma Rousseff , nel loro primo incontro, hanno denunciato l’attacco della speculazione internazionale contro i paesi emergenti.