Travolto dalle critiche per aver consegnato Julian Assange alle autorità britanniche, il presidente dell’Ecuador Lenín Moreno, in calo verticale di popolarità, prova a respingere tutte le accuse, a cominciare da quelle che gli ha rivolto il suo predecessore Rafael Correa.

In un’intervista al Guardian, Moreno è tornato a ribadire che Assange ha ripetutamente violato le condizioni dell’asilo, accusandolo di aver usato l’ambasciata ecuadoriana a Londra come un «centro di spionaggio» e persino di aver «mantenuto un comportamento costantemente inappropriato anche dal punto di vista igienico» (accuse definite «scandalose» dall’avvocata di Assange Jennifer Robinson). «Non abbiamo mai provato a espellerlo», ha assicurato il presidente, ma, «date le costanti violazioni dei protocolli e la minacce, l’asilo politico è diventato insostenibile».

Moreno ha anche negato di aver voluto vendicarsi della pubblicazione da parte di Wikileaks dei cosiddetti Ina Papers, una serie di documenti da cui emergerebbe l’utilizzo di conti bancari offshore da parte di Moreno e della sua famiglia per l’acquisto di svariati beni di lusso, come pure di aver rilasciato Assange nel quadro di un accordo in base a cui l’Ecuador avrebbe ottenuto un prestito da parte del Fondo monetario internazionale: «Falsità create e diffuse da gruppi collegati al precedente regime che non hanno voluto trovare una soluzione al caso di Assange se non quella di chiuderlo a chiave nella nostra ambasciata».

La valanga di critiche che ha ricoperto Moreno non accenna tuttavia a placarsi. Contro il presidente è arrivata anche l’accusa, da parte di Javier Arcentales Illescas, consigliere per la Mobilità umana presso l’Ufficio del difensore civico dell’Ecuador, di aver violato le regole del giusto processo, revocando ad Assange la nazionalità senza inviargli prima alcuna notifica e dargli modo di argomentare di fronte a tale provvedimento.
Rispetto poi alla richiesta avanzata al governo britannico di non estradare Assange in paesi dove potrebbe subire torture o rischiare la pena di morte, si tratterebbe, secondo Arcentales, solo di «una dichiarazione di buone intenzioni», in quanto «lo stato ecuadoriano non ha ora nessuno strumento per garantire la sua libertà, la sua vita e la sua integrità».

E ulteriori e infuocate polemiche ha provocato l’arresto a Quito – definito da più parti totalmente arbitrario – dell’attivista digitale svedese vicino a Wikileaks Ola Bini, un punto di riferimento nella difesa del software libero, poche ore dopo la dichiarazione della ministra degli Interni María Paula Romo sulla presunta presenza nel paese di hacker russi.