Giovedì 12 dicembre dovrebbe essere giorno di elezioni in Algeria. Il governo ha indetto le presidenziali per sostituire l’ex presidente Abdelaziz Bouteflika, dimissionario. La popolazione, invece, chiede lo smantellamento del sistema e una transizione verso uno stato di diritto. Un braccio di forza che dura da più di 10 mesi.

È dal 22 febbraio che la popolazione chiede il passo indietro del regime e una transizione verso un sistema più libero, più trasparente e garante dei diritti e delle libertà di tutti. Invece il generale Ahmad Gaied Salah, l’uomo forte del paese, e il presidente ad interim Abdelkader Bensalah hanno indetto le elezioni presidenziali per colmare il vuoto istituzionale che si è creato dopo le dimissioni di Bouteflika, il 2 aprile scorso.

IL MOVIMENTO HIRAK, in prima fila nelle piazze, non ne vuole però sapere di un nuovo presidente adesso, ma vuole un periodo di transizione verso un sistema politico più trasparente, libero e democratico. Chiedono di archiviare tutto il sistema di governo attuale: «Yetnehaw ga’!», Se ne devono andare tutti, è diventata la parola d’ordine principale. Si chiede anche un dialogo nazionale aperto a tutte le forze vive del paese, una assemblea costituente per scrivere una nuova Carta costituzione e solo a quel punto indire elezioni libere e trasparenti, gestite da istanze indipendenti: praticamente la fondazione di una seconda repubblica algerina.

Dopo un periodo in cui sembrava esserci una buona intesa tra le istituzioni militari e la popolazione in rivolta contro la decisione del «clan» dei Bouteflika di candidare il vecchio Abdelaziz, ormai malato e non in grado di ricevere un quinto mandato, subito dopo le dimissioni di quest’ultimo c’è stata la frattura tra le due posizioni. Frattura che si è allargata progressivamente, mano a mano che diventava chiaro come i comandi militari fossero decisi a mantenere la loro “roadmap” di uscita dalla crisi basata sulle elezioni, mentre i manifestanti del Hirak erano più che decisi a non cedere niente delle loro rivendicazioni.

 

La manifestazione che si è tenuta ieri, 9 dicembre, a Algeri (Afp)

 

In questi giorni lo scontro, anche se in modalità non-violente, almeno da parte dei manifestanti, è al suo apice. Il paese è in subbuglio. Le manifestazioni da settimanali sono diventate quotidiane. Uno sciopero generale è stato indetto e anche se l’adesione non è stata unanime nel paese ci sono azioni ovunque, con tanto di uffici elettorali murati e portoni di comuni e sottoprefetture saldati dai contestatori.

PER LE STRADE di molte piccole località ci sono cerimonie di distruzione delle urne. Ad Algeri le proteste sono ovunque, mentre la regione tradizionalmente ribelle della Cabilia è bloccata dallo sciopero e dai blocchi stradali. La popolazione non vuole semplicemente boicottare, ma impedire la tenuta delle elezioni. Da parte sua il regime è passato progressivamente alle maniere dure, con centinaia di arresti e sempre più aggressioni fisiche da parte delle forze dell’ordine si registrano durante le manifestazioni.

Nella diaspora il processo elettorale è iniziato sabato 7 e si dovrebbe votare fino a giovedì. Ma molti uffici elettorali all’estero sono presidiati dagli attivisti. L’affluenza è pari a zero quasi ovunque. I pochi votanti sono spesso funzionari e famigliari di funzionari dei servizi consolari.

La giornata del 12 in Algeria si preannuncia molto calda. E le possibili vie sono due. O il generale prende atto delle richieste della popolazione e apre il campo politico al dialogo e alla transizione democratica. Oppure dovrà passare agli agli arresti di massa e ai carri armati per le strade. Cosa che porterebbe al collasso un paese già messo a dura prova.