In Algeria, questo venerdì sarà il trentaduesimo, da quando, il 22 febbraio scorso il popolo algerino ha cominciato a scendere in piazza per chiedere la fine del regime. 8 mesi di lotta senza sosta. Ogni settimana milioni di persone sono uscite di casa. In ogni stagione, in ogni condizione. Di venerdì, si esce tutti. Durante la settimana, ci sono presidi diversi: quelli degli studenti, degli avvocati, dei pensionati, quelli per la liberazione dei detenuti, etc.

Una lotta unitaria, nonviolenta, senza concessioni, che ha fatto sue due evidenze: 1. il cambiamento vero chiede tempo, pazienza e unità, 2. la violenza non può risolvere il problema, perché va sempre a favore dei potenti.

All’inizio si chiedeva solo la partenza di Bouteflika e l’annullamento delle elezioni confezionate per assicurargli un quinto mandato. Ma poi, progressivamente, il movimento ha preso coscienza della sua dimensione e del suo potenziale ed è passato a rivendicazioni di cambiamento radicale. Dopo le dimissioni di Bouteflika, «yetnehaw ga’», togliamoli tutti, diventa lo slogan e la parola d’ordine del Hirak, «il movimento».

Si chiede una rifondazione totale dello stato, un periodo di transizione con cambiamenti alla guida di tutte le istituzioni, un’assemblea costituente, una nuova costituzione: una nuova repubblica.

Finora la protesta ha ottenuto risultati tangibili. Il presidente Abdelaziz Bouteflika è caduto insieme alla sua famiglia e a tutto il suo clan, organizzato come un vero e proprio clan mafioso. In carcere sono finiti: il fratello del presidente, alcuni ex ministri, alcuni tra i più grandi imprenditori del paese, e alcuni pezzi grossi dell’esercito e dei servizi.

Ma gli arresti dei pezzi grossi non hanno cambiato la natura del regime. Anzi. L’arresto di tutto il clan dei Bouteflika, e dei loro complici, ha lasciato il Capo dello Stato Maggiore dell’Esercito Nazionale, Il generale Ahmed Gaid Salah, solo al potere. Riportando così l’esercito in primo piano nella vita politica del paese, come negli anni della guerra civile, e concentrando tutti i poteri tra le mani di un solo uomo. Un uomo che lontano dall’essere senza macchie, è considerato uno tra i più corrotti del sistema Bouteflika.

Ma la strada algerina non è ingenua e non crede alla leggenda del generale giustiziere. Le manifestazioni fiume continuano ogni settimana e chiedono la caduta del generale e di tutte le tracce del sistema mafioso che ha gestito il paese dal 1962.

Negli ultimi mesi, dopo una prima fase “morbida”, il regime è passato alla repressione. Dopo il tentativo di dividere la popolazione tra arabi e amazigh (berberi) e l’arresto di circa un centinaio di manifestanti che portavano bandiere amazigh, nelle ultime settimane è passato all’arresto degli attivisti e animatori più in vista del Hirak. Tutti arresti arbitrari, per delitti d’opinione, nessuno per atto violento o illegale.
Per portare questa situazione all’attenzione della comunità internazionale, per esigere la liberazione immediata di tutti i prigionieri d’opinione e la fine delle persecuzione, per tentare di rompere il muro di silenzio che regna intorno alla protesta del popolo algerino, alcuni comitati della diaspora Algerina all’estero hanno indetto delle iniziative in una ventina di città nel mondo per il sabato 5 e domenica 6 ottobre. I comitati organizzatori hanno proclamato il 5 ottobre, una data storica per le lotte per la libertà nel Paese, come Giornata internazionale di lotta per il rispetto dei diritti umani in Algeria.

In Italia in solidarietà con la lotta del popolo algerino, e per la liberazione di tutti i prigionieri di opinione e la fine della reppressione, è il Collettivo Algeria Libera Democratica (CALD-Italia) che ha organizzato un presidio per domenica 6 ottobre alle 15 in piazza Cordusio a Milano.

* Kerim Metref è autore tra l’altro del libro «Algeria tra autunni e primavere. Capire quello che succede oggi con le storie di 10 eventi e 10 personaggi». (Multimage, 2019)