Anche stamattina i genitori delle scuole di Bari erano davanti alle scuole. Stavolta non accompagnavano i figli, visto che le lezioni sono state sospese, ma i loro zaini. È il flash mob organizzato dal “Coordinamento dei genitori attivi pugliesi” per protestare contro la chiusura decisa dal governatore Michele Emiliano su suggerimento dell’assessore alla sanità, l’epidemiologo Pierluigi Lopalco. Anche in Umbria e nelle Marche rimangono aperte solo le primarie e il lockdown scolastico potrebbe essere presto esteso ad altre regioni. Eppure ancora ieri Franco Locatelli, pediatra e membro del Comitato Tecnico Scientifico ha detto che «il contributo della scuola al contagio è marginale».

È possibile che abbiano ragione sia Locatelli che Lopalco. Come spiega l’epidemiologo pugliese, la chiusura delle scuole non è giustificata dal rischio diretto che si corre nelle aule, ma al fatto che «ciascun evento di positività attiva una ingente carico di lavoro sul servizio sanitario», spiega l’epidemiologo-assessore. «Migliaia di persone in isolamento fiduciario di almeno 10 giorni per contatto stretto», ma anche «migliaia di ore di lavoro per gli operatori dei dipartimenti di prevenzione, perché devono effettuare i tamponi, la sorveglianza sanitaria e le attività di tracciamento, a cui si aggiunge l’enorme carico di lavoro dei laboratori per l’analisi dei tamponi». La scuola in Puglia chiude dunque per la disorganizzazione che la circonda, dai trasporti alla sanità.

In ogni caso, stupisce che a un mese e mezzo dalla riapertura delle scuole non si sia ancora capito se distanziamento e mascherine siano in grado di bloccare sul nascere i contagi in classe. Circolano alcuni dati sui casi positivi tra alunni e docenti, ma non spiegano se il contagio sia avvenuto in classe o altrove. La coincidenza tra l’inizio dell’anno scolastico e l’impennata della curva dei casi non basta per provare un nesso: scambiare una correlazione per un rapporto di causa ed effetto è uno degli errori più comuni della statistica. Una settimana fa l’Istituto Superiore di Sanità aveva azzardato una cifra in apparenza più accurata: solo il 3,5% dei nuovi focolai riguarda le scuole. Ma è una cifra su cui scommetterebbero in pochi: «Si tratta della percentuale calcolata sui focolai che riusciamo a tracciare, una piccola parte del totale» spiegano fonti dell’Iss. La ministra Azzolina aveva detto che i dati «sono in possesso delle autorità sanitarie, a cui sono trasferiti settimanalmente per la loro analisi nell’ambito del quadro epidemiologico generale». La realtà è che i dati non ci sono o sono incompleti. E infatti ieri l’Istituto ha preferito non comunicare cifre sul contagio nelle scuole.

Se i dati mancano è perché nelle regioni più colpite è andato in tilt il sistema di tracciamento dei casi. Sovraccaricati dal numero di casi e dalla burocrazia, gli operatori non riescono a realizzare le “indagini epidemiologiche” per valutare i contatti, isolare e tamponare quelli a rischio e fermare sul nascere i focolai. Perciò, attualmente in Italia nessuno sa dire con certezza se le scuole – o gli autobus, o i treni – siano luoghi a rischio di contagio.

La situazione negli altri Stati non è molto più chiara, ma qualche elemento in più c’è. Il Robert Koch Institute (Rki), che in Germania corrisponde al nostro Iss, divide i focolai in 19 categorie diverse. Anche se le scuole sembrano il luogo ideale per il contagio, ha spiegato alla rivista Nature Walter Haas, epidemiologo al Rki. «Le infezioni di Covid-19 tra i bambini sono ancora molto inferiori che tra gli adulti: sembrano seguire la situazione più che trainarla».

Lo stesso articolo di Nature riporta uno studio Australiano secondo cui, su 1.635 focolai scolastici, due terzi erano limitati a un unico caso. Il virus dunque entra nelle classi ma non si diffonde. Da ricerche condotte nelle scuole tedesche, statunitensi e australiane emerge che i bambini più piccoli trasmettano il virus in misura assai minore rispetto a quelli con più di 11-12 anni. Ma il motivo non è ancora chiaro.