Un Eid al-Fitr speciale. L’Afghanistan celebra in pace la festa che nel mondo islamico segna l’interruzione del digiuno del Ramadan. A partire dalla scorsa domenica, e per tre giorni, è in vigore un cessate il fuoco. Annunciato dai Talebani, è stato accolto dal presidente Ashraf Ghani, che ha decretato il rilascio di altri 2mila Talebani dalle carceri governative: 100 al giorno a partire da ieri.

La tregua serve a Ghani per giustificare la liberazione dei detenuti, come prevede l’accordo dello scorso febbraio tra i Talebani e Washington, finora occasione di scontri e letture diverse tanto da aver fatto saltare l’inizio del dialogo intra-afghano, previsto per il 10 marzo.

Il contesto ora è diverso. Cessate il fuoco e rilascio di prigionieri dipendono da tre fattori. Il primo è la crescente pressione esercitata dagli Stati uniti e dagli altri attori regionali affinché diminuisse il livello della violenza tra Talebani e forze governative, cresciuto invece nelle ultime settimane, come testimonia l’Onu.

Pur non prevedendo in modo esplicito la cessazione delle ostilità tra gli attori afghani, l’accordo di febbraio era considerato preliminare a una significativa riduzione degli scontri. Che non c’è stata. Anche perché per i Talebani la violenza continua a essere l’arma più efficace. Ma hanno tirato fin troppo la corda e qualcuno si è spazientito.

L’Afghanistan si regge in gran parte sulle spalle dei donatori internazionali, sempre meno restii ad allargare i cordoni della borsa, soprattutto ora che devono affrontare in chiave domestica le conseguenze economiche e sociali del virus. Da qui, pressioni crescenti sia sui Talebani sia sui leader politici di Kabul.

Questi ultimi pochi giorni fa hanno trovato un accordo che mette fine – almeno sulla carta – alla disputa durata otto mesi sui risultati delle elezioni presidenziali del settembre 2019. Ashraf Ghani si conferma presidente, mentre lo sfidante Abdullah Abdullah è stato nominato a capo di un nuovo Consiglio di riconciliazione nazionale con il compito di gestire i colloqui di pace con i Talebani. È il secondo elemento che ha favorito le novità diplomatiche.

Il terzo è la rapida diffusione del virus, negli ultimi giorni: a dispetto dei pochi test effettuati, il numero di contagiati è arrivato a 12mila. Finora sia i Talebani sia il governo di Kabul hanno usato il virus come terreno di scontro per contendersi spazi di legittimità agli occhi della popolazione. Ma conoscono i rischi a cui andrebbe incontro il Paese se il virus continuasse a diffondersi in un contesto di guerra, che ostacola se non impedisce la risposta sanitaria, già parziale.

Rimane l’incognita sul futuro: la tregua rimarrà circoscritta ai soli tre giorni di celebrazioni per l’Eid al-fitr, o sarà preliminare a una significativa e prolungata riduzione delle ostilità?

La reazione di alcune cancellerie – incluse quelle di Germania, Indonesia, Norvegia, Uzbekistan e Qatar, pronte a mediare tra le parti – sembrano indicare che potrebbe essere presto trovata una nuova data per l’inizio del negoziato di pace vero e proprio.