Facile è scatenare una guerra, difficile concluderla. Impossibile – insegna il caso dell’Afghanistan – giustificarla, facendo a meno delle ragioni tartufesche dei politici con elmetto d’ordinanza e vocazione dannunziana o delle simulazioni degli strateghi militari chini sulle loro mappe, ottimisti anche quando il loro fortino finisce assediato dal nemico di turno, come nel caso dei Talebani che hanno convinto gli Stati uniti a sedersi al tavolo negoziale e a firmare il 29 febbraio 2020 uno storico accordo politico.

Che non conclude ancora la guerra, non risparmia le vittime, ma certifica il fallimento dell’opzione militarista e rende tragicamente vane, alla luce dei circa 3.500 morti civili registrati ogni anno, le parole – prima accorate e sentenziose, solenni e ridondanti, poi, col passare degli anni, sempre più rituali e protocollari – di politici e ministri che rivendicavano la necessità della guerra, generatrice di diritti e democrazia, stabilità e progresso.

Così ci è stato detto, per quasi venti anni, sempre più a bassa voce. Così è stato assicurato agli afghani, per quasi venti anni, con sempre minore sfrontatezza. Qualcuno di loro all’inizio ci ha creduto, il tempo necessario a riconoscere che le cancellerie occidentali non sono meno bugiarde di quelle regionali, guardate con sospetto e impegnate nel nuovo “grande gioco”, pronte a colmare il vuoto aperto dal ritiro degli Stati uniti, i cui soldati sono scesi a circa 8.500.

Quanto a noi, continuiamo a ritenere attendibile la vecchia storiella della guerra che genera diritti, così almeno sembrano testimoniare le parole usate dalla viceministro degli Esteri Marina Sereni subito dopo l’approvazione alla Camera, due giorni fa, della risoluzione sulle missioni internazionali. Per lei, la «forte integrazione e complementarietà tra componenti militari, civili e di cooperazione» permette di «perseguire obiettivi di sicurezza, sviluppo, rispetto dei diritti umani».

Che provi a chiederlo agli afghani e alle afghane se le cose stanno davvero così o se, come dimostra il caso dei Prt, i Provincial Reconstruction Team ormai chiusi e un tempo fiore all’occhiello dei militari, la commistione tra cooperazione civile e impegno militare non abbia provocato grandi danni e compromesso sicurezza, sviluppo, diritti umani.

Le parole della viceministro Sereni e del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che ha enfatizzato «la votazione coesa del Parlamento», così come l’ampia adesione dei deputati alle nuove avventure militari, sono esemplari. Indicano una continuità ormai storica, un conformismo culturale prima ancora che politico, consolidatosi con la guerra afghana, perseguita con cieca, ottusa ostinazione legislatura dopo legislatura, proroga dopo proroga, voto dopo voto.

Senza che nessuno – neanche a sinistra, negli ultimi dieci anni almeno – provasse a chiedersi: perché siamo in Afghanistan?

Oggi, a quasi venti anni di distanza dal rovesciamento dell’Emirato islamico d’Afghanistan, e a pochi mesi dal ritiro dei residui 800 soldati italiani, invece di trarre un bilancio, di interrogarsi sul senso e sui risultati di una missione estremamente costosa che finisce per riabilitare e riportare al potere – anche se condiviso – quei Talebani un tempo descritti come selvaggi barbuti, il Parlamento italiano non solo nicchia sui fronti già aperti, ma decide «con votazione coesa» di aprirne di nuovi.

Con l’adesione alla task force internazionale Tabuka, operativa nel Sahel, con la missione nel Golfo di Guinea, con il rinnovato e ampliato impegno in Libia: guerra scaccia guerra.