L’inviato Khalilzad che promette e non mantiene. I Talebani insoddisfatti. Gli Usa incerti sul ritiro. L’errore strategico del Pakistan, che alza troppo il tiro e consegna al presidente afghano Ghani un successo inaspettato. Per Antonio Giustozzi, tra i più autorevoli studiosi del movimento degli studenti coranici, sono le ragioni che hanno fatto saltare il negoziato tra gli Usa e i Talebani, il cui leader, Haibatullah Akhundzada, ora rischia grosso.

Condotto per mesi a Doha dall’inviato americano Zalmay Khalilzad, l’accordo prevedeva il ritiro delle truppe straniere, la garanzia che i jihadisti a vocazione globale non avrebbero avuto spazio nel Paese, una riduzione della violenza in alcune aree e la disponibilità dei Talebani a negoziare in futuro con altri attori politici afghani, incluso il governo di Kabul.

Il 7 settembre Trump ha detto che il negoziato con i Talebani era saltato a causa dei loro attentati. Mossa per ottenere maggiori concessioni, tentativo di rivedere quanto già concordato o accordo troppo ambiguo?

La scusa di Trump non regge. I Talebani erano insoddisfatti dell’andamento dei negoziati. Khalilzad ha fatto promesse che non ha mantenuto. Non è riuscito a convincere Ghani a farsi da parte. Così ha proposto che, anziché un governo a interim, a negoziare con i Talebani fosse una delegazione rappresentativa di tutte le correnti politiche, anche di opposizione. Ghani ha accettato la delegazione, ma le ha negato potere negoziale autonomo. Non era quello che i Talebani speravano ed era inaccettabile anche per i pachistani, molto ostili verso Ghani, che contraccambia.

È mancato il consenso anche sulla natura della presenza militare statunitense, dopo il ritiro delle truppe…

C’è stata una certa esitazione americana sull’idea del ritiro completo. I Talebani erano pronti ad accettare la presenza dell’intelligence Usa – per monitorare gli accordi e la presenza di gruppi jihadisti – a condizione che fosse camuffata. Un’ambasciata a Kabul con tante spie, qualche centinaio di marines, oltre alla presenza di contractors formalmente non riconducibili alla Cia poteva passare, ma poi Trump, via Twitter, ha fatto riferimento a una presenza di lungo termine. Haibatullah ha già problemi a far accettare ai “duri” la linea del negoziato. L’idea di una presenza prolungata o del controllo di una base militare spaccherebbe il movimento. L’ordine di riprendere gli attacchi è arrivato a fine agosto, in coincidenza con l’uscita di Trump.

I termini dell’accordo raggiunto «in linea di principio» non sono mai stati chiariti del tutto. Una scelta, o di per sé erano ambigui?

Khalilzad ha un’eccezionale abilità nel dire e non dire. Ha fatto avvicinare le tre parti ma raccontando storie diverse a ciascuno e mantenendo una certa opacità. Arrivati al dunque, i Talebani si sono accorti che la delegazione afghana non era autonoma, che quei 500 uomini dell’intelligence nell’ambasciata Usa assomigliavano a una base militare; gli Stati uniti che le garanzie talebane sui jihadisti erano poco chiare, etc. Khalilzad sperava che una volta portati in mezzo al guado i tre attori si sarebbero accordati, perché tornare indietro sarebbe stato politicamente troppo costoso. Ma Trump non tiene conto di queste cose.

Molti ritengono che la questione non sia se, ma quando Washington deciderà di tornare al tavolo negoziale…

Per Trump i tempi sono stretti. Se non succede nulla entro dicembre, non se ne farà nulla. Non avrà tempo sufficiente per capitalizzare. Nel lungo periodo o la guerra continua per sempre o si negozia, ma sarà sempre più difficile trovare una controparte taliban disposta a farlo. Se Haibatullah venisse bruciato dal negoziato, sarebbe già il secondo leader a rimanerne vittima (dopo mullah Mansur, polverizzato nel maggio 2016 da un drone Usa nel Beluchistan pachistano, ndr). Vorrebbe dire che per i Talebani è più facile e conveniente fare la guerra che la pace.

L’accordo prevedeva la presa di distanza dei Talebani dai jihadisti a vocazione globale, inclusa al-Qaeda. Quali sono i loro rapporti, ora?

In forte deterioramento da febbraio, quando Haibatullah ha ordinato ai suoi di tagliare i ponti con i gruppi jihadisti, su richiesta di Khalilzad. Ci sono stati incontri ai quali hanno partecipato membri senior della Rahbari Shura (la cupola della leadership talebana, ndr) per rassicurare al-Qaeda, che però ha perso fiducia. Al-Qaeda non ha preso posizione pubblicamente perché ancora riconosce Haibatullah come leader supremo. È una situazione imbarazzante. Esclude lo scontro frontale, ma compromette rapporti di lunga data.

La questione dei rapporti con al-Qaeda rischia di frammentare ulteriormente il movimento? Più passa il tempo e più sarà difficile per Haibatullah mantenere consenso sulla linea negoziale…

Le critiche dei duri sono accese. «Sono fratelli di jihad, ci hanno aiutato, ora dovremmo rivolgerci contro di loro? È inaccettabile» dicono molti. Se il negoziato dovesse finire così sarebbe in questione la leadership di Haibatullah, che da febbraio fino almeno a giugno ha optato per la de-escalation militare, costata cara ai Talebani in termini di perdite. Nella Rahbari Shura alcuni elementi pro-Haibatullah si sono già riallineati con Sirajuddin Haqqani, del fronte oltranzista. Contrari a qualsiasi accordo, in particolare con gli americani, gli Haqqani sono stati costretti da pachistani e sauditi ad abbassare la testa. Per sei mesi sono stati buoni. Poi a fine luglio hanno avuto un nuovo via libera.

E il Pakistan, tradizionale sponsor degli studenti coranici, come si sta muovendo?

Per i pachistani l’accordo è anche un modo per rientrare nelle grazie di Washington, ma la situazione è complicata: ora possono optare per la prova di forza militare, e allora Haibatullah, l’uomo del negoziato, potrebbe non servire più, oppure forzare i Talebani a ulteriori concessioni. Ma oltre alla soddisfazione di Washington, cosa ne guadagnerebbero? Già hanno perso in Kashmir. Se perdessero anche in Afghanistan sarebbe dura. Islamabad ha commesso un errore di calcolo, spronando i Talebani ad aumentare la pressione militare su Ghani e sugli americani prima della firma dell’accordo. Hanno alzato troppo il tiro. Era ciò che voleva Ghani. Il fatto che al potere ci sia ancora lui, e vicino al secondo mandato, è una sconfitta clamorosa per i pachistani.

Sul “che fare” dopo un eventuale accordo, sul tipo di sistema politico-istituzionale da istituire in Afghanistan, i Talebani sembrano avere idee confuse…

Alcune idee ferme ci sono, e c’erano delle Commissioni al lavoro. Accettano che sia impossibile tornare all’Emirato e che serva un regime ibrido, che coniughi elementi dell’attuale Repubblica islamica con elementi dell’Emirato. Accettano che ci siano elezioni per determinare chi governa e un regime pluralistico, anche se non del tutto inclusivo. Le discussioni con altri partiti politici afghani, soprattutto islamisti, sono già in una fase avanzata, e anche per questo saboteranno le presidenziali del 28 settembre, ma senza stragi clamorose di civili, per non compromettere la parziale uscita dal loro isolamento politico interno.

 

 

I saggi per capire il paese e i Talebani

 

 

Visiting Professor al King’s College di Londra e fellow del think thank londinese The Royal United Services Institute, Antonio Giustozzi è tra i più accreditati studiosi dell’Afghanistan e dei Talebani, a cui ha dedicato saggi e libri, tra cui The Taliban at War. 2001-2018, appena pubblicato dalla casa editrice Hurst, The Islamic State in Khorasan: Afghanistan, Pakistan and the New Central Asian Jihad (Hurst 2018), Empires of Mud: Wars and Warlords in Afghanistan (Columbia University Press 2012).