I commenti di questi giorni sull’evoluzione del conflitto afghano sono stati per lo più incentrati sugli aspetti politico-militari, trascurando l’importanza del ruolo giocato dai fattori economici e dagli aiuti internazionali. Se i Talebani hanno ripreso il potere e se l’esercito e lo Stato afghano si sono dissolti di fronte alla loro avanzata è, infatti, anche a causa delle disparità e della miseria che, in vaste zone del Paese, sono oggi maggiori di ieri.

Già negli anni Settanta, l’Afghanistan era tra i più poveri del mondo. Dopo la fine del Regno afgano nel 1973, le successive vicende non avevano alterato le caratteristiche economiche di un territorio di valli e picchi montani, deserti e pianure – «il giardino luminoso del re angelo» di Peter Levi – dedito all’agricoltura e alla pastorizia delle sue tribù nomadiche, con risorse minerarie, sulle antiche rotte mercantili da Oriente a Occidente. Né era mutata la distribuzione geografica dei vari gruppi etnici secondo linee tribali storiche, nonostante l’enorme emorragia di rifugiati fuoriusciti verso Pakistan e Iran (fino a un terzo della popolazione).

La vittoria degli «studenti» integralisti islamici nel 1996 contro le milizie dell’«Alleanza del Nord» – anch’essa secondo linee etnico-religiose – per controllare poi solo tre quarti del Paese, aveva portato l’Afghanistan all’isolamento e all’ulteriore impoverimento. E, con l’invasione del 2001, gli americani avevano re-installato una coalizione di varie milizie e signori della guerra, prendendo in mano un Paese devastato da più di vent’anni di conflitto e distruzioni.

Così, al di là dell’impegno politico-militare della «guerra al terrore», la presenza delle truppe americane e degli alleati Nato diede il via al più consistente flusso di aiuti internazionali della storia recente. L’attenzione fu posta sulla ricostruzione delle infrastrutture e di un’economia ridotta al minimo, sulla fornitura di servizi pubblici, sulla strutturazione fisica e normativa delle istituzioni. Tuttavia, per un Paese che viveva ai limiti della sussistenza, con una vasta economia informale, e per una popolazione per il 70% rurale e per il 30% ancora nomadica – i Kochi, per lo più Pashtun – le condizioni di vita non mutarono. Il consenso del governo rimase debole, fiaccato da spaccature lungo linee etnico-tribali antiche e recenti, acuite dalla povertà e dal divario urbano-rurale che, negli anni, andò accentuandosi.

Gli aiuti internazionali fecero da subito di quella afghana un’economia dipendente in tutto e per tutto dai donatori esteri. In vent’anni il PIL afgano è passato da 4 a 20 miliardi di dollari annui, contro un flusso cumulato di fondi in «assistenza ufficiale allo sviluppo» pari a 76,6 miliardi (fonte: OCSE) e più di 50 miliardi annui di «aiuti militari». Fino al 2011, gli aiuti annuali allo sviluppo sono stati finanche pari al 90% del PIL. Grande parte del flusso di fondi (il 73%), tuttavia, è stato speso «fuori dal budget», ovvero non direttamente attraverso il bilancio pubblico afghano, secondo linee stabilite dai Paesi donatori, pur se in settori meritevoli (istruzione, servizi sanitari e sociali). In sostanza, l’economia afghana è stata letteralmente guidata dagli aiuti, secondo modalità e priorità decise dai donors (Stati uniti e Regno Unito in primis). La crescita dell’economia, che pur c’è stata, è stata trainata solo in piccola parte dall’agricoltura e per lo più dai servizi, «indotti» dalla presenza straniera. Peraltro, nonostante la dichiarata «guerra ai narcotici», l’Afghanistan produce oggi l’80% dell’oppio mondiale (si era quasi azzerato sotto i Talebani).

In vent’anni, come ammette anche la World Bank, la povertà è però rimasta drammaticamente alta, con l’aggravante di un’aumentata disuguaglianza a vantaggio di esigue fasce di popolazione concentrate nelle aree urbane e impiegate dall’indotto degli aiuti. Uno Stato rentier totalmente dipendente dagli aiuti si è così creato, vessato da corruzione e frammentazione, incapace di raggiungere la maggioranza di suoi cittadini. Come le popolazioni rurali e nomadiche hanno visto peggiorare le loro condizioni – tra i Kochi i tassi di povertà superano il 60% – è facile capire come i Talebani possano avere avuto successo nel fomentare la rivolta anti-governativa e anti-americana. È dove povertà e miseria sono più alte che questi hanno fatto più presa (la correlazione geografica tra tassi di povertà e numero di conflitti e scontri a fuoco negli anni è altissima).

Gli aiuti sono stati direzionati secondo le preferenze dei donatori e poco o nulla è stato fatto per includere le masse di «poveri diseredati» nel vasto Paese, la cui condizione oggi è come quella di un ventennio addietro, come quella di sempre. Se la guerra e il sostegno dato all’opera di «state building» sono stati «inutili», non riuscendo a sradicare l’insorgenza, è anche perché la coalizione non è stata inclusiva, acuendo i divari territoriali ed interetnici, verso i quali gli aiuti, pur sulla carta liberi della logica militare, hanno seguito il loro noto perverso meccanismo. Se la strategia americana – avulsa da ogni considerazione socio-economica e demografica, nel suo perseguimento di un astratto modello democratico imperniato su alcune élite prescelte – ha le sue colpe, non meno responsabile è stata la logica che, in Afghanistan come altrove, guida da sempre gli «aiuti allo sviluppo» di rispondere a priorità e convenienze dei donatori e solo, occasionalmente, a quelle delle popolazioni beneficiarie.