Nelle note a questo film Fabrizio Ferraro scrive:«Volevo vedere come si suscita l’immagine attraverso la musica. Filmare la musica è molto difficile, l’unica possibilità è quella di entrare dentro la musica, capire la giusta distanza, la posizione». La scommessa di partenza è teoricamente forte, pensiamo a cineasti come Pennebaker, Peter Whithead, Julian Temple anche se Ferraro sceglie un altro punto di osservazione: non il palcoscenico, il concerto ma tutto quello che c’è dietro, il fare, la «vita al lavoro».

Protagonisti in un bianco e nero liquido e solido sono Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura, tromba e accordeon, con Manfred Eicher, il carismatico discografico di Ecm. Ferraro li filma durante la registrazione dell’album In Maggiore nell’Auditorium della Rsi di Lugano vuoto, le file di sedie dove di solito si sistemano gli spettatori «osservano» silenziose i due musicisti sul palco ripetere per giorni. Eicher ascolta dietro il vetro, esce, commenta il risultato, parla coi musicisti, propone di ripartire, controlla con orecchio chirurgico ogni segmento del suono. Fresu e Di Bonaventura suonano, si interrompono, si confrontano su un passaggio, su una nota, su una possibile variazione. Cercano di combinare la precisione della trama musicale e gli spazi dell’improvvisazione. Riascoltano insieme a Echer, annotano i cambiamenti, la tromba mette l’otturatore, l’accordeon reinventa un nuovo possibile fraseggio.

Ci vuole intimità e fiducia per aprire il proprio laboratorio a qualcuno, come il regista e la sua piccola troupe nel momento del «fare», ma Ferraro prima di arrivare lì ha seguito Fresu e Di Bonaventura per tre anni, li ha filmati a casa, sul palco, in viaggio. Tutta questa preparazione rimane però fuoricampo, e al contrario la sua macchina da presa registra la situazione da una certa distanza. Più della costruzione di una qualche empatia Ferraro cerca di cogliere – e lo dichiara esplicitamente – la produzione dell’atto musicale per poi metterlo in relazione con quello cinematografico, in un gioco di giustapposizione ad alto tasso teorico. I

n questo senso Wenn Aus Dem Himmel-(Quando dal cielo) appare in sintonia coerente con il progetto di cinema amatoriale che il cineasta mette alla prova a ogni suo film, la ricerca di un’indipendenza che unisce nelle sue immagini modalità produttive,il «budget zero», l’esplorazione dell’immaginario fuori dai genere, un allenamento che permette all’occhio di misurarsi con diversi linguaggi. Pure se qui, rispetto a altri film – come Je suis Simone – il movimento interno cambia nella ricerca appunto di una sinergia con quello spazio buio, sospeso, straniato di prove/lavoro che si fa materia, grana dell’immagine, continua messa alla prova del punto di vista.

Ecco perché non sarebbe servito più nulla, quella fatica, quel gesto ripetuto ogni volta solo apparentemente uguale nei suoi decisi seppure impercettibili cambiamenti – del resto anche un ciak come la musica non può essere lo stesso, questione di luce, di tatto, di sensibilità, di improvvise sfumature inattese – sono potenti. Invece Ferraro esce dalla sala inserendo «traiettorie di fuga»: versi in voce off, il paesaggio, la luce del mare, il vento, le automobili che scivolano nella notte, quasi non si fidasse del proprio filmare, di quella presenza della creazione in cui fisicamente la musica e l’immagine dialogano e prendono una forma.

E che è fatica, ostinazione, sofferenza – i due musicisti sono lì seduti ore, lui li riprende spesso di spalle con la bella scelta di non utilizzare i primi piani. Sentiamo le incertezze, viviamo pudicamente le conversazioni, scopriamo questa dimensione del lavoro nel gesto artistico, l’energia e la fatica. Un’epifania meravigliosa che questo sbalzo di punto di vista – l’esterno – spegne. É strano perché il primo stavolta a non apparire allenato a fronteggiare i passaggi delle immagini è Ferraro, che pure nel suo filmare la musica trova la sua misura, e una risposta alle proprie esigenze teoriche. Spiegarle non serve, come nell’improvvisazione è questione di punto di vista, e variazioni impercettibili. Ma sostanziali.