L’impressione è lattiginosa, corrisponde alla nebbia leggera che avvolge come una pellicola le torri degli Asinelli. Solo che quel velo di candore, invece di generare oppressione, permette al respiro di allargarsi. Per la prima volta, entrando nei padiglioni 25 e 26 di Artefiera a Bologna si vedono le pareti bianche e si percepisce il desiderio collettivo di operare una certa pulizia dello sguardo. Le gallerie hanno allestito una serie di mostre, alcune a tema, altre personali, qualcuna per costellazioni di presenze storiche, insomma una «sfilata» delle loro scuderie, con qualche rinuncia. La prima su tutte è la rinuncia a testimoniare l’horror vacui.

È STATO QUESTO, forse, il lavoro più faticoso da compiere per la direttrice Angela Vettese, al suo secondo anno tra gli espositori: fare spazio, cercare un minimo di senso, dare un tocco tutto italiano (pochissimo straniero) alla fiera leader di settore, giunta alla sua 42/ma edizione, con 152 gallerie (per via di sottrazione), dieci operatori che lavorano per editoria e manifatture dentro il contenitore Printville, e venti tra editori puri e istituzioni. «Ho dovuto far accettare l’idea che per raggiungere la qualità si dovesse magari guadagnare di meno. È stato possibile, l’abbiamo fatto, dimezzando il numero dei partecipanti». La formula dev’essere stata «meno soldi più prestigio», con uno sguardo aperto sul lungo termine e sul ritorno possibile di questa politica culturale. A tutti, Vettese ha poi chiesto di impegnarsi a creare stand senza abbuffate visive, negando il principio di accumulazione.

IL PERCORSO – che sarà visitabile fino al 5 febbraio – è disseminato da punti che «scartano», dalle gallerie dedicate esclusivamente alla fotografia inserite lungo l’itinerario senza ghetti di appartenenza di stampo concettuale vintage (a cura di Andrea Pertoldeo) fino a Modernity, la sottosezione che individua alcuni espositori che dedicano lo stand a una personale vera e propria. Si va dalla bolognese De’ Foscherari con Gianni Piacentino, alla milanese Prometeogallery con Regina José Galindo, Guidi&Schoen in tandem con Olivo Barbieri, Nuova Galleria Morone con Maria Lai, alla romana Alessandra Bonomo che lavora con la pioniera americana della video-performance Joan Jonas, fino a Corraini di Mantova che porta Giosetta Fioroni e la sua potente installazione Il male inflitto alle donne. Dieci anni dopo la prima apparizione, raffrontata all’attualità dissennata dei femminicidi e dell’abuso di potere, non ha perso un grammo della sua forza originale.

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COME SEMPRE, la kermesse del mercato dell’arte – che per fatturato resta la regina nel testa a testa con Artissima e Miart – ha mobilitato intorno a sé, e in mille direzioni centrifughe, l’intera città, sia con il progetto voluto da Vettese Polis, impreviste «visioni» che colpiscono i flâneurs ovunque passeggino in quel di Bologna e altrove, allargando la geografia – Vito Acconci si trova all’Erbario, Luigi Mainolfi alla Biblioteca universitaria etc. – sia attraverso un sistema di innervature spontanee che vanno da Art City (il programma è fittissimo e culmina nella notte bianca di sabato) a Set up contemporary.
La fiera collaterale più giovane quest’anno ha conquistato il rinascimentale Palazzo Pallavicini, accogliendo 34 gallerie nelle sue tredici stanze, riunite tutte intorno al tema dell’Attesa, dopo i precedenti zoom su «orientamento» e «equilibrio».

NONOSTANTE IL PROLIFERARE di iniziative e l’attenzione centrale rivolta al mondo dell’arte, i punti dolenti del mercato made in Italy rimangono sempre gli stessi: un collezionismo random e diffuso, spesso piccolo e medio che, se da una parte impedisce di fare operazioni di mera speculazione – come accade in Inghilterra – dall’altra è sempre pronto alla paralisi quando si fiutano tempi di recessione, rinunciando a un bene-rifugio come l’arte perché troppo fluttuante. Non tanto nelle quotazioni (che restano stabili, tranne bizze come la discesa di Bonalumi) ma nel suo appeal sulla piazza degli affari. E secondo Ida Pisani, della Prometeogallery, l’altro problema atavico che sconta il nostro paese è la confusione dei ruoli. «Ormai – afferma – tutti si improvvisano. I collezionisti diventano dealer, gli artisti curatori e nessuno ne trae giovamento di questo continuo interscambio perché genera solo caos».
Lei per questa edizione ha puntato su Galindo (che ha presentato nei suoi spazi l’ultima performance in cui lanciava un sos in alfabeto morse, saltando i confini del Guatemala: le sue opere vanno dai 15mila ai 21mila euro), Santiago Sierra e gli operai di Attempt to build four 100×100 cm sand cubes, che vanamente costruiscono cubi di sabbia, Hiwa K (1975, Kurdistan, Iraq, vive a Berlino), in stato di grazia dopo Documenta.

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La direttrice Angela Vettese

PER LA DIRETTRICE di Artefiera la vera spina nel fianco non sono mai state le ondate di crisi ripetute, l’ultima quella del 2010 («è vero, abbiamo assistito allo sboom, ma il sistema dell’arte è sostanzialmente anticiclico», sostiene Vettese), quanto la fiscalità e l’alta tassazione. Eppure, qualcosa si muove anche in Italia. Intanto, la fotografia ha definitivamente conquistato una visibilità maggiore e ha vinto la diffidenza dei collezionisti: star come Salgado o Berengo Gardin possono permettersi di fare tirature aperte, mentre fotografi come Massimo Vitali (Guidi&Schoen) si attestano stabili sui 45mila euro.
Due le presenze da tenere d’occhio: il poetico Lorenzo Cicconi Massi (di Senigallia, un inizio come assistente di Giacomelli), esposto da Contrasto, e la finlandese Sanna Kannisto (galleria Metronom di Modena). Nella sua serie Local Vernacular, riprende specie di uccelli migratori nel loro habitat naturale, lavorando con ricercatori e scienziati, ponendo particolare attenzione e classificando i loro codici comunicativi. Se si vuole continuare con le visioni oniriche applicate al desiderio di archiviazione del mondo, non si può evitare l’incontro meraviglioso con l’86enne olandese Herman de Vries e le sue teche di frammenti che rimandano uno all’altro, dalle polveri indiane ai sassolini greci (galleria Cortesi).
Infine, Trisorio, storica galleria napoletana (in mostra ha Francesco Arena, Rebecca Horn, Gregorio Botta, Marco Tirelli e Raffaella Mariniello col suo lavoro intorno alla «memoria violata» nella biblioteca Girolamini) interrompe le lamentazioni funebri ascoltate in questi anni di magra per i galleristi. La città è una fucina in ebollizione, con sinergie felici tra istituzioni e privati. Insomma, l’arte ha il vento in poppa.