Strano e sorprendente un saggio che si presenta come «una specie di storia delle figure retoriche degli ultimi trent’anni»: modello metodologico il Siti del Neorealismo nella poesia italiana, e forse il Curtius di Letteratura europea e Medio Evo latino; anti-modello esplicito i critici che cercano un habitus categoriale prêt à porter frugando «nel trovarobato delle scienze umane». Scritto da Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea (il Mulino, pp. 456, € 29,00) si apre con due ampi capitoli che propongono, per scorci e per campioni, un quadro complessivo della narrativa e della poesia degli ultimi tre decenni, la cui genealogia risale, a volte, fino agli anni Settanta del Novecento; mentre i cinque saggi raccolti nella seconda parte approfondiscono altrettanti luoghi privilegiati dell’immaginario contemporaneo, nella convinzione che si dia storia propriamente letteraria solo a partire dall’inventario dei topoi, tematici e formali, che accomunano i testi di un’epoca.

Sono quasi trecento gli autori convocati, con continue escursioni dalla Trivialliteratur alle scritture più complesse: per ampiezza e varietà del corpus, sembrerebbe un trattato di sociologia della letteratura; e infatti il capitolo dedicato a Quel che si vende non risparmia al lettore un saggio su Federico Moccia; un altro capitolo, sulle Scritture di categoria, si sofferma prima sull’«industria dell’esordio» (gli «autori giovani», da Porci con le ali a Under 25) e poi sugli «scrittori televisivi», interrogando, fra gli altri, i libri di Daria Bignardi e Flavio Insinna, Maurizio Costanzo e Alba Parietti.

Di questa produzione perlopiù dozzinale interessa a Simonetti intanto (ma non solo) il valore documentario: storielle rosa e autobiografie narcisistiche sono sineddoche di un immaginario diffuso e sintomo di un determinato inconscio politico; la scommessa consiste tuttavia nel ritrovare gli stessi temi e soprattutto gli stessi fenomeni formali, declinati in modi diversi ma riconoscibili, nella letteratura di consumo e in quella alta – e perfino in quella cosiddetta di ricerca, che troppo spesso altro non fa se non rovesciare in sterile parodia i topoi della produzione mainstream.

Quel che più conta è che fra gli «opposti estremi del campo letterario» si stabiliscono imprevedibili «solidarietà strutturali», capaci di far «rimbombare un desiderio reificato, meglio ancora se violento ed estremo». Per questo, a conferma di un’ottica formalista e non sociologica, proprio la produzione media tende a subire nel libro una vistosa elisione, a tutto vantaggio di scritture che, per diverse ragioni, nel bene come nel male possono ambire al ruolo di forme simboliche della contemporaneità. Minimo comun denominatore dei mutamenti formali è infatti l’imperativo della velocità, cui pagano tributo non solo i prodotti di genere (dal pulp al noir), ma anche autori come Pontiggia o Pintor: i ritmi narrativi appaiono intensificati, le pause descrittive scarnificate; frequente è l’ibridazione di stili e linguaggi: nei cannibali come in Michele Mari; onnipresenti le immagini (pubblicitarie, cinematografiche, multimediali): in Moccia come in Siti; spesso dominante il modello della non fiction, in cui «i tempi lunghi del racconto romanzesco vengono “tagliati” con le emozioni anfetaminiche dell’inchiesta giornalistica»; pervasivo il diffondersi di un «realismo dell’irrealtà»: categoria che consente di liquidare (era ora!) lo sterile e ricorrente dibattito che ha visto opporsi l’autoriflessività postmoderna e il presunto ‘ritorno al reale’ degli anni Zero.

Se nel capitolo sul desiderio è esplicito, altrove il giudizio di valore è spesso implicito, o appena accennato: mai assente. Anzi, il rovescio di un’apertura fenomenologica totale è il frequente affioramento, fra le righe, di un’estetica normativa. La vocazione del romanzo, genere chiamato a indagare «la normalità, la banalità del quotidiano», sarebbe tradita dall’odierno proliferare di scritture del trauma e dell’individualistica eccezionalità; «l’aspirazione moderna di un’arte come infinito possibile, onnicomprensivo e antagonista», è rovesciata, nel nuovo Millennio, da una letteratura come «molteplice concreto»; la lirica moderna va «intesa come oscurità procurata e bisogno di assoluto (il grido, il silenzio)»: come se questa – in realtà splendidamente minoritaria – fosse l’unica vera poesia dell’Otto-Novecento, e certificarne il «declino» equivalesse a dimostrare l’oggettività di una cesura storica. Di qui la tesi centrale del libro: la letteratura dei nostri anni sarebbe testimonianza di «un distacco progressivo e irreversibile dalla tradizione del Novecento». Quella che Simonetti chiama, con sprezzatura fra ironica e nostalgica, la letteratura «di una volta», con il suo orizzonte umanistico capace di sopravvivere perfino agli sberleffi delle avanguardie, si sarebbe esaurita intorno alla metà degli anni Novanta, portando a definitivo compimento un processo – a dire il vero più evidente nella poesia che nella narrativa, più marcato in Italia che altrove – iniziato all’incirca vent’anni prima.

È proprio la convinta asserzione di «un mutamento di paradigma» a giustificare l’architettura del libro, in cui le gerarchie del giudizio di valore trovano scarsa rispondenza. Del resto, il programma di Simonetti è già nell’epigrafia da Fassbinder: «Ciò che siamo incapaci di cambiare dobbiamo almeno descriverlo». E di certo non era inutile dimostrare quel che tutti già credevamo di sapere (magari senza averli letti): che cioè Moccia e Volo, come Melissa P. e Daria Bignardi, scrivono libri brutti. Ma analisi altrettanto approfondite avrebbero chiesto anche i libri belli: perché il rigore un po’ algido di una (peraltro ammirevole) descrizione formale, disposta a rinunciare per più di quattrocento pagine a ogni afflato di spitzeriana critique des beautés, lascia il rimpianto per una qualche forma di generosità ermeneutica, di scommessa sul valore e sul senso – a meno che perfino l’ermeneutica sia da relegare nelle botteghe fumose di filosofanti rigattieri.

Certo è che, come tutti i grandi libri – lo è non solo per la qualità della scrittura –, La letteratura circostante suscita anche dissenso. Se convince il programmatico rifiuto di una storiografia letteraria fondata su antologie e riviste, poetiche e ismi, dispiace che in concreto ne restino varie tracce: ha ancora senso appaiare Del Giudice e il modesto De Carlo nel segno dell’eredità del Calvino anni Ottanta? e a entrambi accomunare il grande Tabucchi, quasi derubricato a scrittura d’evasione? o trattare i cannibali di fine anni Novanta come un gruppo coeso? Ignorare, in tutto o in parte, scrittori che non hanno mai cessato di intrattenere un problematico commercio con la letteratura «di una volta» (da Consolo a Trevisan, da Piersanti a Maggiani; per non parlare delle trascuratissime scrittrici midcult) rende a tratti idiosincratico il quadro storiografico. Ma soprattutto: è possibile decretare la fine della tradizione del Novecento, quando altrove Philip Roth o Coetzee, o Sebald o Mauvignier ne attestano la vitalità? E infine: davvero «una porzione sempre più grossa di letteratura tende prevalentemente all’intrattenimento»? Più rilevante di quella che nel 1869, in Francia, si appassionava alle sorti di Rocambole e ignorava quelle di Fréderic Moreau?

Uno sguardo comparatistico alla longue durée induce a allentare la coazione tipicamente modernista al periodizzamento serrato, al nuovo esibito a ogni generazione, alla mutazione antropologica seriale, poco importa se esaltata (una scrittura all’altezza dei tempi) o deprecata (la fine del romanzo, o dell’umanesimo). Con il suo eclettismo relativista, con il suo gusto per il revival e la riscrittura, almeno questo, forse, il postmoderno potrebbe insegnarlo: che nulla, o quasi, è «irreversibile» in letteratura.