Nel 1870 a Parigi si era appena completata una vasta opera di ristrutturazione e modernizzazione urbanistica iniziata nel 1852 dal prefetto Georges Eugène Haussmann e la capitale francese, con una popolazione di due milioni di abitanti, rivaleggiava con Londra in termini di grandezza e influenza. Ma se la corte della regina Vittoria aveva inizialmente perso fascino rispetto a quella francese, dove l’imperatrice Eugenia sfoggiava le più belle creazioni di Charles Frederick Worth insieme alla principessa Metternich, e Napoleone III si contornava di un entourage di imprenditori di successo e di giovani ereditiere americane, lo scoppio della guerra franco-prussiana nel luglio di quell’anno, anche se per poco tempo, avrebbe spostato gli equilibri della vita sociale e mondana internazionale nuovamente sulle rive del Tamigi.
La Francia affrontò il conflitto in un clima di grande entusiasmo, ma con scarsa preparazione militare. Il pretesto fu offerto da una questione dinastica apparentemente distante dalla vita delle due nazioni, ma strettamente legata ai timori francesi del passato. Il trono di Spagna, rimasto vacante in seguito a un colpo di Stato militare, venne offerto dal governo provvisorio spagnolo a Leopoldo di Hoenzollern, parente del re di Prussia, e la Francia, temendo di essere accerchiata come ai tempi dell’imperatore Carlo V, reagì prontamente dichiarando guerra alla Prussia.
Fu così che si arrivò al più importante conflitto combattuto in Europa tra l’epoca delle guerre napoleoniche e la prima guerra mondiale, e che vide la completa vittoria della Prussia e dei suoi alleati.
Pochi mesi dopo l’aprirsi delle ostilità, nel nord-est della Francia, a Sedan, Napoleone III e le sue truppe furono drammaticamente sconfitti, e l’imperatore fu addirittura fatto prigioniero dai tedeschi. A Parigi, ormai minacciata dai prussiani, veniva creato un governo provvisorio composto in gran parte da repubblicani, mentre molto diversa era la situazione nelle campagne e nei centri minori dove prevalevano le tendenze conservatrici e il desiderio di una rapida firma della pace.
In questo clima si formò la Comune di Parigi che, nel nome, evocava la prima Comune giacobina del 1793 e che assunse immediatamente i tratti di un’esperienza decisamente rivoluzionaria, la cui vita durò però soltanto pochi mesi.
Fra il 21 e il 28 maggio di quell’anno le truppe del governo ufficiale della Terza Repubblica, guidato dal suo nuovo presidente, Adolphe Thiers, occuparono la capitale francese. Si trattò di una battaglia combattuta con violenza strada per strada e gli eccessi della repressione governativa durarono ben oltre la fine delle resistenze dei comunardi.
Nel corso dei pochi mesi di vita della Comune la città era diventata uno spettacolo di barricate, di esecuzioni, di cadaveri e di scontri per le strade.
Queste scene sono le protagoniste della prima sezione della mostra parigina Les Impressionistes à LondresArtistes français en exil, 1870-1904, al Petit Palais fino al 14 ottobre.
Jean-Baptiste Camille Corot, Gustave Dorè, Jean-Louis Meissonier e James Tissot dipingono una città distrutta e allo stremo delle forze, con gli incendi che ne segnano l’orizzonte. O ancora più drammaticamente, in un piccolo acquarello su carta di gran lunga differente da quella che siamo abituati a considerare la sua produzione più nota, Tissot, come in un tragico fotogramma, coglie l’attimo esatto di una esecuzione di comunardi davanti alla fortificazione del Bois de Boulogne il 29 maggio 1871, dipingendo il corpo di un uomo gettato nel vuoto e i cadaveri dei suoi compagni ammucchiati sull’erba sottostante.
Molti pittori, non solo impressionisti, scapparono da quell’orrore dirigendosi per lo più a Londra che in quei giorni li accolse offrendo loro oltre al riparo dalla guerra anche la possibilità di nuove prospettive di lavoro e nuove collaborazioni artistiche, anche se la distanza emotiva fra le due città sembrava incolmabile ad alcuni, come Jean-Baptiste Carpeaux. Lo scultore, nonostante un immediato successo come ritrattista nella capitale britannica, avvertiva infatti in maniera dolorosa la lontananza da una città che aveva vissuto come il centro culturale e creativo dell’Europa.
Questo è il vero cuore della mostra, che già nella seconda sezione espone dipinti che trasmettono la serenità di scene che sembrano improvvisamente lontanissime dalle precedenti.
Charles-Francois Daubigny, Camille Pissaro, Alfred Sisley e soprattutto Claude Monet dipingono tranquille scene del Tamigi avvolto nella nebbia in cui l’abbazia di Westminster fa da sfondo evanescente allo scorrere della vita, o della campagna inglese attraversata dai fumi di un treno a vapore. In un piccolo dipinto su tavola del 1871 Monet sembra affidare le proprie riflessioni e forse i timori di quei giorni alla giovane moglie, Camille Doncieux, che, abbandonata su un divano con un libro chiuso fra le mani, appare già vicina al gusto dei soggetti di dipinti tipicamente vittoriani.
Differenti nei modi e nelle conseguenze furono le esperienze di questo eterogeneo gruppo di artisti francesi a contatto con la cultura inglese a Londra. Se Alphonse Legros divenne una sorta di ambasciatore culturale e punto di riferimento per gli espatriati, Tissot si ambientò al punto tale da modificare il proprio nome da Jacques-Joseph in quello decisamente più inglese di James. Ma soprattutto i suoi dipinti, di cui alcuni dei più noti sono esposti in mostra, rappresentano un grado di compenetrazione fra le due culture tale da far pensare che proprio il suo essere straniero gli rendesse più facile e congeniale lo sguardo sulla capitale inglese con quel tocco di leggerezza che le esperienze tragiche della Comune sembravano avergli fatto perdere.
Emerge alla fine una nuova visione dell’immagine di Londra filtrata dalle esperienze dei pittori francesi in esilio, delle scene di vita nelle sue strade e negli interni delle case, ma soprattutto un omaggio alle sue vedute avvolte nella nebbia o sotto un inaspettato sole primaverile, come nel caso de Le Regate a Molesey di Sisley del 1874 e delle famose vedute di Monet del Parlamento sullo sfondo del Tamigi.
La mostra si conclude infatti con una sorta di passaggio ideale di testimone dalle vedute di Monet a quelle di poco successive di Andrè Derain che, con i suoi colori accesi, osserva Londra con occhi decisamente nuovi e inaspettati.
Per dovere bisogna terminare dicendo che non tutti i pittori francesi fuggirono dall’esperienza della Comune e che, anzi, alcuni di loro ne furono importanti protagonisti. Manet, insieme a Degas, rimase infatti a Parigi e si arruolò nell’artiglieria dove prestò servizio come luogotenente nei quartieri generali della Guardia Nazionale e anche Courbet non abbandonò la capitale francese e, alla proclamazione della Repubblica, venne eletto presidente della Commissione delle arti, difese i musei della città e incitò i suoi concittadini addirittura ad abbattere la Colonna Vendôme, uno dei simboli napoleonici di Parigi, considerato dalla Comune «un attentato continuo ad uno dei tre grandi principi della Repubblica: la fratellanza!».