Tra pochi giorni, a settembre, la commissione bicamerale antimafia si occuperà del manto di scorie radioattive che sarebbero state depositate impunemente negli anni a Lattarico da imprese del nord senza scrupoli in combutta con camorra e faccendieri massoni.

Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore, candidato alla Camera senza successo nel 1994 per Forza Italia, è in questi giorni sotto processo per ecomafia. Il processo si celebra nell’aula 116 davanti alla V sezione della Corte di Assise del Tribunale di Napoli. Chianese risponde di associazione mafiosa, disastro ambientale, estorsione, avvelenamento delle acque. La procura lo considera «l’inventore e ideatore dell’ecomafia in Campania». Insieme al vertice del clan dei Casalesi, in particolare Francesco Bidognetti, conosciuto come Cicciotto ’e mezzanotte, avrebbe imbastito il grande affare del pattume tossico. Imparentato con Bidognetti, era di casa a Villa Wanda, la magione di Licio Gelli sulle colline che sormontano Arezzo, crocevia di trame ed intrighi occulti.

Mattia Pulicanò è un collaboratore di giustizia, fuoriuscito dalla cosca di ‘ndrangheta Lanzino-Rua di Cosenza. Da oltre un anno è la «gola profonda» di un’inchiesta antimafia coordinata dalla Dda di Catanzaro. Racconta di carichi di veleni lungo l’asse Nord Europa-Campania-Calabria, di rifiuti tossici provenienti dall’estero interrati «15 o 20 anni fa», ma anche di operazioni analoghe mediate da ditte venete ed emiliane collegate alla camorra di Casal di Principe. Le scorie, molte radioattive, sarebbero sepolte a Lattarico, pochi chilometri da Cosenza, più precisamente nella frazione Regina. A portarceli sarebbe stato Chianese. Li avrebbe seppelliti con la complicità di un imprenditore cosentino, Marcello Aloise, suocero di Pulicanò. Proprio lui, nel 2012, avrebbe riferito al genero i contorni di quell’operazione di smaltimento illecito.

«Interrare quei rifiuti rappresentava una contropartita agli appalti che Chianese gli aveva fatto prendere nel corso degli anni nel nord». In cambio, però, l’imprenditore «doveva mettere a disposizione la sua azienda per occultare rifiuti tossici». In quel 2012, i due uomini avrebbero discusso dell’argomento perché l’imprenditore aveva intenzione di ripetere l’operazione. «Ero appena uscito dal carcere – ricorda il pentito – e lui mi ha proposto il trattamento, da parte della mia cosca, di rifiuti tossici provenienti dal nord Italia. A riguardo, mi precisava di aver già assunto contatti con un veneto che trattava le spedizioni per conto di un gruppo di Modena che spediva rifiuti tossici in Africa. L’oggetto dell’affare era quello di far arrivare rifiuti nella zona di Lattarico dove dovevano essere interrati».

Secondo il pentito, il progetto era quello di costruire innocui capannoni agricoli e impianti fotovoltaici sui terreni prescelti, al fine di «non dare nell’occhio», dissimulando così la presenza dei veleni radioattivi. In altri casi, invece, quelle scorie erano state occultate «nelle colate di cemento».

Quell’affare non andò poi in porto perché il sedicente gruppo modenese, in quel caso, non aveva in animo di trasferire rifiuti tossici, bensì «scocche di autovetture, pneumatici, batterie auto e altro. Uno stock di 20-25 container al mese difficilmente occultabili a differenza di scarti industriali, fanghi e scorie radioattive, ovviamente più remunerativi e semplici da gestire». L’imprenditore cosentino collegato a Chianese, comunque, cercava l’appoggio della cosca per due buone ragioni: «Gli serviva un finanziamento e la forza lavoro in quanto, trattandosi di attività illecita, non si fidava a utilizzare i propri dipendenti».

È un comune molto esteso, Lattarico: oltre 42 chilometri quadrati, ma nella contrada Regina, arroccata su un cocuzzolo che domina la vallata, vivono poco meno di 800 persone che sono sotto shock. Nelle poche attività commerciali di zona non si parla d’altro. «I cittadini di Lattarico non sono di serie B. Se fosse accaduto al nord puoi immaginare quanti ministri ci sarebbero andati», si infervora Gianni, pensionato. Ma a queste latitudini nessuno s’è visto. Né Galletti, il ministro dell’ambiente, né altri. Figurarsi Renzi che preferisce scagliarsi contro il «vittimismo» dei meridionali.

La sindaca Antonella Blandi di mestiere fa la farmacista. Appena sono circolati i verbali delle deposizioni di Pulicanò ha scritto alla Dda e ha presentato un esposto alla Procura cosentina affinché venga fatta chiarezza. «Sono fiduciosa – dice- perché sono sicura che sul nostro territorio questo tipo di fenomeno mafioso non ci sia mai stato, né negli ultimi 11 anni in cui abbiamo amministrato noi né prima. Se fosse vero gli autori si sarebbero macchiati di un orrendo crimine contro intere generazioni. E non ci credo. Da noi non esistono grandi capannoni o colate di cemento in grado di occultare rifiuti». Difende a spada tratta la sua comunità, Blandi, anche se alla fine ammette: «È vero che negli ultimi anni ci sono stati tanti ammalati di tumori, anche giovani, ma il dato di per sé non dimostra nulla».

Il consigliere di opposizione, Giuseppe Raimondo, invece, vuole vederci chiaro sul nesso patologie tumorali-rifiuti e così ha proposto di istituire una commissione comunale per monitorare insieme all’Asp l’incidenza di tumori negli ultimi vent’anni e di avviare controlli sulle sorgenti e sui terreni. Anche il sindacato alza la voce. La Cgil provinciale ha chiesto al governo, al presidente della Regione e all’Arpacal, l’agenzia regionale dell’ambiente, di intervenire immediatamente. «Urge una bonifica. Ancora una volta il territorio cosentino appare sito di elezione per una delle attività più proficue per la criminalità organizzata, rivelandosi le consorterie locali una sorta di dependance del clan dei Casalesi». E il ricordo non può che andare alle navi dei veleni, inabissate nel Tirreno cosentino. E su cui non è mai stata fatta chiarezza.