Controllavano tutto. Un vero «gruppo decisionale che decideva chi dovesse essere nominato nell’ufficio pubblico che doveva relazionarsi con loro, chi dovesse essere favorito nell’assegnazione dei lavori». Un potere che derivava da una massa di soldi enorme, alimentata, per anni, dai fondi dei grandi progetti, primi fra tutti il Mose. Nulla, in fondo, li poteva fermare. Se il parlamento decideva di cambiare gli obiettivi si mettevano in moto i broker, gli intermediari in grado di parlare al politico giusto, pagandolo – sostiene il gip di Venezia – il prezzo necessario per cambiare le carte in tavola. E se qualche finanziere decideva di andare a vedere i conti, gli uomini del megaprogetto che doveva salvare Venezia si facevano in quattro, chiamavano il generale amico, pronto a correre in soccorso.

L’inchiesta sulla tangentopoli veneta è un ulteriore masso che si aggiunge alla frana della seconda repubblica. Oggi tocca al sistema Nordest, dove per più di un decennio sono arrivati i fiumi di soldi della diga Mose. Opera mai conclusa, una vacca da mungere in tanti. Non ci sono solo l’ex governatore Giancarlo Galan e il gruppo di imprenditori veneti che giravano attorno al Consorzio Venezia Nuova, nell’elenco dei trentacinque arrestati (per Galan l’esecuzione dipende dall’autorizzazione della Camera) e dei circa cento indagati. Spiccano almeno due figure chiave, due uomini che – secondo i magistrati – sarebbero stati i terminali del sistema di corruzione: Marco Milanese (solo indagato), ex finanziere, consigliere politico di Giulio Tremonti, deputato del Pdl, già indagato dalla procura di Napoli, che nel 2011 ne chiese l’arresto; finito in carcere invece il generale Emilio Spaziante, vice comandante della Guardia di finanza fino allo scorso anno, con un curriculum ricco di incarichi in missioni estere e ai vertici della fiamme gialle.

Il politico Milanese per i magistrati ha avuto un ruolo chiave nel 2010. Gli stanziamenti del Cipe per i grandi progetti erano stati rimodulati, spostando le risorse verso il Mezzogiorno, lasciando solo il 15% del budget statale vincolato alle opere nel nord. Il Mose era una macchina che richiedeva continuamente nuovo carburante, centinaia di milioni di euro da distribuire tra le imprese del consorzio. A maggio il gruppo di imprenditori si muove, avvicina la politica. Il presidente del consorzio Giovanni Mazzacurati – «dopo aver concordato con i principali consorziati», scrive il gip – muove un intermediario del gruppo, Roberto Meneguzzo, amministratore della società finanziaria Palladio. Incontri discreti con l’allora consigliere di fiducia di Tremonti, Milanese, telefonate e messaggi: il piano – poi riuscito, secondo i magistrati – era di spostare le risorse verso le opere idrauliche, ovvero il mostro Mose. Il tutto, secondo l’inchiesta, in cambio di tangenti: «Corrispondeva a Milanese Marco – scrive il gip Alberto Scaramuzza – quale consigliere politico dell’onorevole Tremonti – all’epoca ministro dell’Economia e componente parlamentare della V Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione e della VI Commissione Finanze al fine di influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose (…) anche la somma relativa ai lavori gestiti dal Consorzio Venezia Nuova, la somma di Euro 500.000». Mezzo milione di euro, tondo tondo, per cambiare le decisioni del governo.

Tutto sembrava filare liscio, i soldi erano assicurati, i politici contenti. C’è un imprevisto che, però, allarma il gruppo. La finanza, nel giugno del 2010, va a bussare alla porta del Consorzio, per verificare i conti. Un’operazione che poteva far venire a galla i fondi neri che la magistratura scoprirà da lì a poco. Il gip riporta nei dettagli quello che accade nelle ore immediatamente successive all’arrivo dei militari negli uffici di Mazzacurati.

Partono delle telefonate verso un’utenza che sorprende gli investigatori della finanza di Venezia, che stavano già allora cercando di capire come era gestito il mega progetto del Mose: è un nome pesante, quello del generale Emilio Spaziante, all’epoca a capo delle fiamme gialle dell’Italia centrale. L’alto ufficiale parte subito per Venezia, inizia a chiamare i colleghi, si informa sulle indagini, fino ad arrivare – sostiene la Procura – a chiedere l’elenco delle utenze telefoniche messe sotto intercettazione. Per i magistrati in sostanza è una sorta di talpa di alto livello. «Collaborazione» che aveva un prezzo astronomico: «(il generale, ndr) sollecitava e quindi riceveva da Mazzacurati Giovanni – scrive il gip – la promessa del versamento di una somma pari a 2,5 milioni di euro».

«Un gruppo criminoso che ha abdicato alla propria funzione pubblica, completamente asservito al privato», commenta il gip.