A Venezia c’ è un nuovo punto di riferimento culturale. Promuove la valorizzazione del know-how della Serenissima, mette a confronto espressioni artistiche passate e presenti, favorisce gli scambi internazionali, sostiene il ruolo della città all’estero attraverso workshop, concerti, borse di studio e progetti di supporto agli artisti. È la Fondazione dell’Albero d’oro, con sede a Palazzo Vendramin Grimani, dimora del Rinascimento affacciata su Canal Grande, restaurata e restituita alla cittadinanza nel 2018. L’edificio ospita le collezioni d’arte delle famiglie che l’hanno abitata, altre opere provenienti da collezioni private e una serie di fotografie di Patrick Tourneboeuf che raccontano la dimora prima e dopo il restauro.

L’iniziativa più recente è la residenza dell’artista messicano Bosco Sodi, noto per Casa Wabi, la Fondazione d’arte che ha voluto a Oaxaca, progettata da Tadao Ando e ispirata al wabi-sabi, l’ideale giapponese della bellezza insita nell’imperfetto e nel transitorio.

Il soggiorno di Sodi a Venezia precede la mostra What Goes Around Comes Around, a cura di Daniela Ferretti e Dakin Hart, e che sarà visitabile nel palazzo dal 23 aprile al 27 novembre 2022 come Evento collaterale della prossima Biennale.
Abbiamo incontrato l’artista nei giorni della sua residenza.

C’è una relazione tra il suo lavoro e Venezia?
Ho sempre considerato Venezia una città di texture, di tattilità da contemplare. Il periodo trascorso a Palazzo Grimani mi ha dato la possibilità di approfondire questa sensazione. Per i messicani una parete è un «quadro» di per sé e in Laguna ce ne sono di bellissime, con colori e materiali diversi. Per le opere che ho creato qui, molto più che in quelle che realizzo in Messico e a New York, ho scelto il rosso, il nero, l’oro e il bianco come richiamo alla cultura italiana e veneziana, tentando di assorbire l’energia speciale di Palazzo Grimani. Ero partito da un’idea che poi ha preso forma a contatto con questi ambienti, con l’umidità dell’aria, con la qualità dell’acqua. Le mie opere hanno senso nel luogo in cui nascono.

Quali sono gli ingredienti della sua pittura?
Preferisco materiali e pigmenti pre-industriali, naturali, impregnati di storie lunghe e complesse. Ricavo il rosso, come si faceva una volta, dalla cocciniglia, ancora oggi prodotta a Oaxaca e che abita anche le tele di Tiziano come un’appropriazione delle Americhe. Unisco il pigmento a segatura compressa, a pasta di cellulosa e a colla. Li mescolo e lascio poi che il quadro fermenti a modo suo. Il processo, che per me conta più del risultato, è aleatorio. Non lo controllo, dipende da fattori dell’ambiente ma pure interni alla pittura, da come la testura si screpola nel tempo. L’effetto finale, anche cromatico, non si vede se non quando la pittura è completamente asciutta. Questo la rende irripetibile.
Lo spazio, per me, è ogni volta un nuovo spunto creativo. La Musa sta nel trattamento delle materie, che mi motiva fisicamente. Il pavimento fa da base per il quadro, che nasce in orizzontale: dispongo lì le materie, aggiungo e doso i colori sempre e solo con le mani. Sono un artigiano che pensa con le mani, mettendo insieme materie e movimenti fisici. Tento di connettermi mentalmente con i materiali che trasformo, di sentirne il ritmo.

Per quale motivo lei sceglie sempre un formato così imponente?
Per la mostra nelle sale monumentali del Palazzo, il pubblico potrà cercare liberamente dei rapporti fra i miei lavori, isolati l’uno dall’altro, e i colori degli intonaci e delle tappezzerie, i riflessi degli specchi, gli affreschi dei soffitti, le travature in legno e gli stucchi. È uno dei motivi per cui i quadri, anche se nascono e si sviluppano a pavimento, vengono poi appesi alle pareti, per facilitare associazioni con lo spazio attorno. Così verticalizzati, mi ricordano le grandi stele da cui ero attratto da piccolo, quando mia madre mi portava a visitare i siti archeologici maya. Le stele maya hanno figure frontali scolpite in pietra, ma affascinano per la loro solidità tridimensionale.

Che cosa porta con sé a Venezia della sua esperienza con i bambini a Oaxaca?
A Casa Wabi ho cominciato a usare il fango per alcune attività che proporrò anche qui. Modellerò con l’argilla messicana e metterò a cuocere 195 piccole sfere (la cifra corrisponde al numero attuale di nazioni esistente sulla Terra, ndr), che collocherò sparse sul pavimento del palazzo. Ogni visitatore potrà spostare uno di questi globi in miniatura, mutando così l’assetto dell’installazione. Le sfere saranno periodicamente fotografate per mostrare come l’opera muta (non sarà mai la stessa) e documentarne le trasformazioni. Durante il finissage, i residenti di Venezia, in visita al palazzo, potranno portare una sfera con sé, attivando un circuito di scambi alternativo all’antico flusso di commerci, a senso unico, tra l’Europa e le Americhe.