In questo esatto istante, in qualche parte del mondo, in Germania, in Corea, in Argentina un compositore di età indefinita sta sicuramente mettendo sulla «carta» le prime note, i primi suoni, di un quartetto per archi. E domani, probabilmente, accadrà la stessa cosa, forse a Bologna, a Madrid, a Vancouver.

Lo stesso scenario non si potrebbe nemmeno immaginare se parlassimo di un trio con pianoforte, di un quintetto di fiati o di una sonata per violino e pianoforte, generi che per i compositori del nostro tempo sembrano dotati di un appeal assai più moderato. L’immaginazione, per altro, è sostenuta, in modo assai persuasivo, dai numeri. Se si consulta il prezioso database dell’Ircam di Parigi che raccoglie la musica a stampa pubblicata, prevalentemente in Europa, negli ultimi settant’anni si scopre che su 41.350 composizioni ben 1.371 sono rappresentate da quartetti per archi, contro i 18 trii per archi, ad esempio o alle appena sette «sonate» per violoncello e pianoforte.

Come si spiega questa fiducia persistente e costante da parte dei compositori del nostro tempo nei confronti di un medium come il quartetto per archi? Che cosa fa di questo genere (che è al tempo stesso una formazione strumentale) il più longevo in assoluto nella storia della musica occidentale? Ci sarà pure una ragione se dai compositori elisabettiani del Cinquecento fino a Salvatore Sciarrino la letteratura per quartetto sembra non sembra subire alcuna crisi…

Una ragione evidente e forse sin troppo superficiale ha a che fare con la classica endiadi tra analogia e diversità. I quattro strumenti in quartetto sono organologicamente identici (conformazione, tecnica costruttiva, accordatura), ma possiedono un’estensione, un colore, un timbro, un carattere sonoro totalmente diversi. Nel quartetto convergono dunque, e convivono felicemente, il massimo dell’omogeneità e un elevatissimo grado di varietà. Il che attribuisce a questo «strumento» (inteso nel suo complesso) il potere formidabile di rendere il suono compatto, coeso, ma al tempo stesso straordinariamente ricco di varianti e di declinazioni.

Per un verso, la somiglianza tra i quattro «eleganti conversatori» – come li aveva definiti Goethe – rende il quartetto una sorta di grande arpa a sedici corde che può essere suonata come se fosse un unico strumento, per l’altro ogni singolo attore sulla scena possiede una sua voce inconfondibile e non sostituibile. Ma c’è di più. Questa organica convivenza di contrari imprime al quartetto per archi una forte dimensione metastorica, che non risente, come altre formazioni del tempo, dell’epoca in cui è fiorita la sua fortuna: un duo violino e pianoforte, per restare nella cornice della musica da camera, è fatalmente connotato come «ottocentesco», mentre una sonata per due violini e basso continuo non può essere dissociata dalle sue origini sei-settecentesche. Il quartetto si offre invece al compositore come un blocco di marmo prodigiosamente neutro che può essere scolpito partendo dalla sua primitiva «materialità».

Nulla sarebbe possibile, però, se a questa fertile attività creativa non corrispondesse una parallela generosità interpretativa. E anche su questo fronte le statistiche fanno spalancare gli occhi per la sorpresa. Limitando lo sguardo all’orizzonte italiano si scopre, consultando l’osservatorio degli Amici del Quartetto di Reggio Emilia, che nel nostro paese sono attive, ad oggi, ben 44 formazioni quartettistiche stabili: un miracolo se si pensa al panorama decisamente più povero di appena vent’anni fa…

Non basta ancora, forse, per raggiungere la diffusione capillare di complessi da camera che si registra in Austria, in Germania o in Inghilterra, ma è abbastanza per rendere concreta la visione «dantesca» del quartetto per archi disegnata da Charles Ives: «Quattro uomini (sic!) che conversano, discutono, litigano, si arrabbiano, si stringono le mani, si zittiscono – poi si arrampicano su per la montagna a riveder le stelle».