Nei 99 reperti accolti in Questo è Kafka? di Reiner Stach, edito da Adelphi nel 2016, figura un capitoletto dedicato ai disegni dell’autore praghese, con un autoritratto poco conosciuto, quasi schiacciato dal busto incombente della madre, minacciosa come il padre che opprime, nell’indimenticabile lettera a lui indirizzata, il figlio attraverso la sua sola presenza. La mutria materna, scrutante il figlio sotto un pince-nez che ne acuisce l’aspetto severo di anacronistica arpia, ha misure raddoppiate rispetto all’ovale del volto sottostante, contrassegnato da uno sguardo smarrito, rivolto pervicacemente all’osservatore che spia la scena.

Si tratta di uno degli schizzi più significativi di Scarabocchi I disegni di Franz Kafka, ben curato da Ginevra Quadrio Curzio per La Vita Felice (pp. 172, € 14,00), che accoglie, nella loro icastica essenzialità, immagini che rimandano a un universo fantasmagorico, fortemente intriso di una poetica di ascendenza onirica. Questi disegni brulicano di ectoplasmi filiformi che manifestano sulla pagina il loro aspetto repellente come scie di inchiostro che deturpano irrimediabilmente una giacca o come l’apparizione dell’angelo-polena spiovente da un soffitto spalancatosi all’improvviso, descritta nel brano dei Diari del 25 giugno 1914, qui messo a commento del disegno di p. 94 che, secondo H. Linder, rappresenta una donna-serpente (non si può non pensare all’Angelus novus di Klee, da cui Walter Benjamin, che a Kafka dedicò pagine ispirate, non si separava mai).

Appare quanto mai convincente l’idea di raccogliere il corpus dei disegni di Kafka in un volumetto arricchito dai testi che originariamente accompagnavano le illustrazioni o estrapolati ad hoc dall’opera multiforme dello scrittore praghese, con particolare attenzione per i Diari e le lettere. L’idea di assemblare i suoi disegni in un libro, confinata nell’ambito dei progetti irrealizzati, era stata peraltro di Max Brod, biografo e sodale che conservò le prove grafiche dell’amico recuperandole dagli appunti presi durante le lezioni di giurisprudenza, le conferenze o, addirittura, dal cestino della carta straccia, come riportato nell’appendice costituita da A proposito delle illustrazioni, estrapolato da Über Franz Kafka. Com’è noto dobbiamo a Brod la conservazione degli scritti kafkiani pervenutici, in quanto non ottemperò alla promessa fatta all’amico di bruciare i suoi manoscritti. Alla morte di Brod, avvenuta nel 1968, il suo lascito finì nelle mani della segretaria Esther Hoffe che, invece di consegnarlo alla Biblioteca nazionale di Israele, com’era nelle intenzioni dello studioso boemo, se ne appropriò, smembrandolo tra l’appartamento di Tel Aviv e le cassette di sicurezza svizzere, operazione che non le impedì tuttavia di venderne una parte sottobanco.

Da qualche anno questo prezioso materiale, contenente svariati inediti, è approdato nella sua sede naturale che è, appunto, quella della suddetta biblioteca, la quale appronterà nel 2024, in occasione del centenario della morte di Kafka, un’importante esposizione documentaria.

Si conoscevano soprattutto gli omini stilizzati, definiti dallo stesso Brod «marionette nere attaccate a fili invisibili», che si dedicavano a varie attività, irretiti in atteggiamenti cristallizzati, come quello dell’individuo tra le sbarre, dello schermidore o dello scrittore ripreso dall’alto con il volto chino sulla scrivania sgombra. Immagini che ricorrevano nei libri di Kafka alla stregua di un ideale commento visivo ai motivi angoscianti della sua opera, nonostante sia sempre più presente, da parte della critica, il tentativo di rivalutare gli aspetti umoristici di tale produzione. Sembra bandito da queste immagini qualsivoglia riferimento alla redenzione: la stessa femminilità si manifesta solo per un vago richiamo al concetto di isteria rappresentato dalla posizione dell’arc-en-ciel presente nell’iconografia della Salpetrière di Charcot investigata da Georges Didi Huberman (uno dei pochi ritratti muliebri è quello dell’ultima compagna, Dora Dymant, nonché il rifacimento di un volto leonardesco ripreso da un’incisione settecentesca di Girolamo Mantelli), come se i profili proposti tendessero necessariamente a una fisiologica trasformazione della condizione umana, a rimodulare, nelle sue articolate sequenze, un medievale bestiario: scarafaggi, talpe, topi, cornacchie (kavka in ceco si pronuncia kafka ed equivale a «taccola»).

Queste figurine dure, spigolose, taglienti, che tuttavia si espandono o si contraggono sulla pagina con la naturalezza delle taches di Michaux, si impongono per una plasticità, una vocazione all’annientamento tipica di chi tenta di dissolversi senza dissolversi mai. Tale stasi – si potrebbe altresì parlare di hybris per l’aspetto chiuso, ostinato, che caratterizza certe fisionomie, in bilico tra mostruoso e animalesco – si manifesta tramite l’inconcludenza che connota ogni occupazione a cui i protagonisti dei testi kafkiani attendono: sono paradigmatiche a tal riguardo le due minuscole illustrazioni riprodotte a p. 118, tratte da una lettera a Milena, che sembrano rifarsi alla macchina descritta nel racconto Nella colonia penale.

Gekritzel è il termine tedesco che designa gli scarabocchi, con riferimento sia agli scritti sia ai disegni. E il rapporto tra parola e immagine si fa qui imprescindibile, come nei sorts artaudiani che abbisognano della bruciatura, della lacerazione del foglio in cui sono riportati per poter rivendicare la loro natura apotropaica.

Nondimeno i disegni di Kafka non hanno alcun intento esplicativo, delineandosi con la medesima impenetrabilità che pervade i suoi testi: una carrozza non è una carrozza, un cavaliere non è un cavaliere, ma proiezioni speculari di carrozza e cavaliere che rinviano a una dimensione irrappresentabile, metafisica. Si tratta di infruttuosi tentativi di coniugare la propria alterità alla nemesi di una scrittura dai tratti aguzzi e impervi, enigmatica come quella dei geroglifici, dei caratteri cuneiformi, mediante l’aspirazione a una verticalità sempre negata (si veda al riguardo l’illustrazione di p. 137, in cui un grumo di parole sul bordo alto del foglio viene cassato con un frego, quasi a formare un diaframma temporalesco che separa terra e cielo, mentre una carrozza si inerpica lungo una salita ripidissima e una coppia di sgorbi angelici, che sembra prefigurare le amalassunte liciniane, indica un punto indeterminato del percorso). Le due macchiette che si fronteggiano a p. 46 (riprodotte a corredo di questo articolo ndr), definite dallo stesso autore Supplicante e nobile benefattore, sono invece associate a un apologo tratto da una lettera a Oskar Pollak in cui spiccano, in guisa di caricature, le larve clownesche del «lungo pudibondo» e del «disonesto».

Altrove vi è un intento più naturalistico, come nelle immagini rassicuranti di un campanile nei pressi di Lugano o della casa di Goethe a Weimar, dove ebbe luogo una curiosa avventura amorosa con la figlia del custode della casa-museo dell’autore del Faust. Particolarmente riuscito l’accostamento del disegno a china di p. 148, rappresentante un cavaliere che cerca di domare un cavallo imbizzarrito, con la prosa intitolata Desiderio di essere un indiano, estrapolata dalla raccolta Betrachtung (1913). D’altro canto l’insistenza con cui si indugia a riprodurre l’aspetto teratologico non viene mai meno, evidenziandosi negli esiti espressionistici degli schizzi emersi di recente dal succitato lascito Brod, laddove allampanate figurine, abbozzate con l’immediatezza di un segno oltremodo puerile, si indirizzano verso una terra estranea alla «corporeità» che inchioda Kafka alla propria condizione di paria. Si veda al riguardo la lettera a Brod di fine gennaio 1921, qui riportata a p. 65, in cui si descrive l’invidiabile leggiadria di alcuni sciatori: «Io li guardavo e pensavo a te, è così che tu hai superato l’ostacolo della tua corporeità».