L’impeachment è stato un atto dovuto anche se la scelta politica di Nancy Pelosi e dei democratici è stata di attenersi ai parametri ristretti della Ucraina-gate. Non sono quindi annoverati nei capi d’accusa molti atti di costituzionalità quantomeno dubbia.

Come il sequestro di minori ai richiedenti asilo, interdizione di gruppi etnici e religiosi e distrazione di stanziamenti federali (come quelli per la costruzione del muro di confine, requisiti dal budget militare mediante la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale dopo che il Congresso li aveva specificamente negati). Né le accuse formalizzate mercoledì si riferiscono alla contravvenzione di trattati internazionali, come quelli sull’asilo politico, stracciati sui confini sigillati e nei campi di concentramento per profughi e rifugiati in barba all’invito scolpito sulle tavole della Statua della Libertà.

PER SCELTA strategica (limitare le accuse del movente politico), gli articles of impeachment si limitano dunque ad imputare al presidente l’abuso di potere, cioè la grossolana estorsione di favori politici al governo ucraino (aprire un inchiesta sull’operato – peraltro non egregio – del rivale Joe Biden in quel paese) minacciando la sospensione degli aiuti militari. E l’ostruzione di giustizia costituita dagli intralci posti all’inchiesta parlamentare. Nel contesto dell’operato del presidente più mendace, autoritario, amorale e “coatto” della storia della repubblica, si tratta di un accusa così circoscritta da apparire riduttiva ed inevitabilmente insufficiente. Non rientrano nella procedura della Camera ne i conflitti di interesse congeniti all’azienda Trump, impadronitasi della Casa bianca rifiutando ogni trasparenza sui conti di famiglia, né tantomeno le frequentazioni moralmente pericolose con tiranni e dittatori nazional populisti di mezzo mondo.

E TUTTAVIA l’impeachment, che rimarrà da ora per sempre associato al nome del presidente più “scurrile” di sempre, è stato un atto dovuto per mettere al verbale della storia le trasgressioni di Trump. Il procedimento a suo carico è stato altresì una dimostrazione necessaria di funzionamento degli argini istituzionali al suo potere debordante. La valvola di sicurezza costituzionale della democrazia americana ha funzionato – o lo ha fatto perlomeno a metà, dato che, come ha espresso Nancy Pelosi, i padri della patria che vollero inserire la clausola di impeachment “avevano previsto l’eventualità di un presidente canaglia, ma non il suo avvento contemporaneamente a quello di un Senato canaglia”.

LA COMPLICITÀ del partito repubblicano e del Senato che controlla sarà il fattore determinante nell’eventuale assoluzione di Trump, come lo è nell’avvallo generale del trumpismo.

Ma non è solo l’inevitabile proscioglimento finale per mano degli alleati politici a negare a questo impeachment la solennità di quello, ad esempio, di Richard Nixon (dimissionario a furor di popolo prima che la procedura potesse essere espletata). Il titanico scontro istituzionale fra potere parlamentare ed esecutivo, concepito come extrema ratio per risolvere minacce mortali per la repubblica, passa quasi come ordinaria amministrazione nell’ambito della presidenza che ha fatto della polemica apoplettica la propria cifra quotidiana. Nel quadro di uno scontro politico sparato a raffiche di tweet il solenne procedimento culminato nel voto di mercoledì non ha potuto che trasmettere la sensazione di un cerimoniale desueto ed anacronistico, superato come le regole di una democrazia in buona parte già rottamata dopo tre anni di trumpismo. La domanda che ora sorge spontanea è se il tentativo di arginare istituzionalmente un movimento fondamentalmente eversivo sia avvenuto fuori tempo massimo.

La frattura fra dispositivo istituzionale e populismo, fra politica e post politica, non poteva essere fotografata meglio che dal comizio organizzato da Trump in contemporanea alla seduta parlamentare.

 

foto Afp

 

MENTRE a Washington il congresso votava l’autorizzazione a procedere, il presidente si concedeva al bagno di folla in Michigan: un comizio di oltre due ore Battle Creek in cui ha superato se stesso con una diatriba talmente biliosa da lasciare interdetta a tratti perfino la folla di cappelletti rossi accorsi ad acclamarlo. Trump ha deriso i democratici nullafacenti ed il loro patetico tentativo di criminalizzarlo, si è lanciato su improbabili tangenti (una che ricorre spesso in discorsi recenti è la promessa di abolire le lampadine a risparmio energetico e i rubinetti a basso flusso imposte da predecessori ossessionati dalla tutela dell’ambiente) ed ha denigrato avversari politici. Vittima designata della serata la parlamentare Debbie Dingell, ingrata per aver votato a favore dell’impeachment pur dopo che lui, Trump, aveva “concesso” al marito deceduto John (anch’egli parlamentare) “un funerale coi fiocchi, di prima categoria. Non di terza o quarta categoria come avrei benissimo potuto fare…ma di prima…” La meschinità consuetamente rancorosa ha fatto da contraltare significativo al rito formale di impeachment in corso nella capitale, in uno “split screen” indicativo della fenditura profonda inferta al paese dalla polarizzazione trumpista.

Né sembra che l’impeachment possa modificare sensibilmente la situazione. “Francamente mi sembra quasi di non sentirlo,” ha chiosato Trump, e in buona parte ha ragione. Di certo non ha scalfito la “base”, quello zoccolo duro che da tre anni acclama le sue esternazioni intrise di razzismo, ingiurie e suprematismo, tifosi – più che delle sue politiche (comunque nebulose ed indefinite) – del suo stile. La postura aggressiva ed anti buonista che veicola la catarsi della rivalsa cieca. Per costoro l’impeachment effettivamente non sussiste e semmai ne rafforza il sostegno. La realtà è che il gradimento di Trump rimane invariato, di poco al di sotto del 50%, sostanzialmente identico a quando una minoranza – il 46,1% – “filtrata” dal collegio elettorale è riuscita ad eleggerlo presidente.

Trump è immune quindi alle cattive notizia ma, come hanno rilevato in molti, anche alle buone. Nei sondaggi rimane inchiodato di poco sotto al 50%, senza sensibili fluttuazioni pur in un economia che continua a tirare. Un indicazione di una politica calcificata su posizioni impugnate a prescindere, in un antitesi che nessun impeachment potrà modificare, ne forse le elezioni ormai alle porte.

È UNA CONTRAPPOSIZIONE che ha sintetizzato bene Bernie Sanders nel dibattito fra i sette rimanenti candidati democratici, svoltosi a Los Angeles appena 24 ore dopo l’impeachment, quando ha parlato di una nazione al bivio fra politiche dell’esclusione e del nazionalismo ed un futuro costruito su solidarietà ed amore. Una scelta sempre più urgente, che non riguarda solo gli Stati Uniti.