A chi è toccato in sorte di prender parte a un corteo funebre in un paese del sud Italia non sarà sfuggito che al passaggio del feretro gli esercizi commerciali abbassano le serrande e i cittadini le tapparelle. Lo fanno in segno di rispetto e compartecipazione al lutto. Fu così anche a Cinisi esattamente 35 anni fa, mentre sfilava il dolore composto e rabbioso di donna Felicia Bortolotta e Giuseppe Impastato, della zia e dei compagni di Peppino? Non ci ha mai creduto nessuno, e ancora oggi, come ogni anno, il rito si ripete in attesa che un giorno, d’improvviso, accada il miracolo e tutte insieme le finestre si spalanchino a testimoniare la caduta del regime dell’omertà e della paura. Sarà il segnale che la tragica fine dell’attivista di Lotta Continua e Democrazia proletaria può essere consegnata alla Storia e, finalmente, si potrà lasciare che i morti tornino a seppellire i loro morti.

Nell’attesa, è utile e opportuno riprendere tra le mani la relazione della Commissione parlamentare antimafia sul caso Impastato (nella nuova edizione appena pubblicata da Editori Riuniti press, Peppino Impastato, anatomia di un depistaggio, con nuovi scritti di Giovanni Russo Spena, che ne fu relatore, Umberto Santino e Giovanni Impastato), un esempio di come il lavoro dei nostri rappresentanti politici possa essere di grande utilità alla ricostruzione di verità negate. Basandoci su questa lettura, possiamo ipotizzare come sarebbe raccontata oggi la vicenda di Peppino Impastato se la tenacia di familiari e compagni non l’avesse avuta vinta sulla versione dei carabinieri che per primi arrivarono sul luogo dell’esplosione: quella di un giovane estremista di sinistra deluso dalla vita e dal riflusso politico che decide di suicidarsi facendosi saltare per aria sui binari della ferrovia, spiegando le motivazioni del suo gesto in una lettera che verrà ritrovata durante una perquisizione nell’abitazione della zia, dove risiedeva in quel periodo. Lo ricorderemmo, in questo caso, come un personaggio a metà tra Giangiacomo Feltrinelli e un kamikaze ante litteram.

L’elenco degli errori e delle omissioni che hanno fatto da subito gridare al depistaggio è impressionante: le imprecisioni nei rilievi del cratere, le impronte digitali sull’auto mai prese, il mancato sopralluogo nella vicina “trazzera” – il casolare di campagna abbandonato in cui i compagni di Peppino troveranno il sedile di pietra insanguinato – le foto della scena del delitto occultate e mai più ricomparse, quel “cuculuni i mari” insanguinato, una pietra da almeno mezzo chilo, simile a un ciottolo di mare, consegnata ai carabinieri e portata via – come racconterà il necroforo chiamato a ricomporre quel che rimaneva della salma – le perquisizioni tutte e solo nelle case di familiari e compagni di Peppino e mai tra i mafiosi o nelle cave da dove, con ogni probabilità, proveniva l’esplosivo. Basterebbe questo per essere certi di come le indagini furono condotte in maniera a dir poco maldestra, ma vale la pena aggiungere le lettere di minacce giunte nei giorni precedenti e firmate Squadre d’azione Mussolini – Sam, una sigla terroristica di estrema destra che negli anni ’70 firmò decine di attentati – le case di amici e familiari “visitate” nei giorni seguenti da qualcuno che evidentemente voleva capire se questi avessero trovato materiale che potesse ribaltare la versione ufficiale. E poi, il modo in cui furono bloccati i compagni di Peppino che, la mattina seguente, volevano entrare nel casolare, il tentativo di far passare le tracce ematiche per sangue mestruale, i titoli dei giornali locali a supporto di ogni elemento che poteva corroborare la tesi ufficiale. O ancora, la versione omertosa del casellante di turno, che non sentì esplodere i circa sei chili di esplosivo perché «quella notte c’era un forte vento di scirocco» che portò gli echi del botto in altra direzione; o il fatto che l’altra casellante, in servizio fino alle 22, non fu mai interrogata perché, fu sostenuto, emigrata in America e mai più tornata, finché un paio d’anni fa fu rintracciata, viva, vegeta e ormai ottantacinquenne, dove nessuno l’aveva mai cercata: a casa sua, che non aveva mai abbandonato.

È terribile ricordarlo, ma il modo in cui fu ucciso Peppino Impastato serve a porsi alcune domande. Sequestrato mentre rientrava a casa dalla sede di Radio Aut a Terrasini, la sera dell’8 maggio 1978, portato in quel casolare abbandonato, torturato sul sedile che un tempo doveva essere servito ai pastori per riposarsi, forse ucciso prima di essere trascinato sui binari della ferrovia con sei chili di esplosivo da cava legati al torace. Del suo corpo si trovò intatta solo una gamba e, particolare curioso, gli occhiali. I resti furono sparsi per un raggio di 300 metri, pezzi di cadavere furono trovati persino sugli alberi. Quel che rimaneva di Peppino fu portato via non in una bara ma in tre sacchetti di plastica.

Perché il giovane militante politico sia stato ucciso è ormai chiaro: più che infastidire, con le sue denunce condite di sferzante ironia erodeva il consenso sociale intorno a don Tano Badalamenti, gran capo della Cupola di Cosa Nostra che di lì a qualche mese sarà “posato”, cioè dimissionato dagli altri capiclan e costretto ad andarsene in Brasile. Per quale motivo sia stato ucciso in questo modo è tuttora poco chiaro. Avrebbero potuto ammazzarlo con un’esecuzione pubblica oppure facendolo sparire nel nulla, ennesimo caso di “lupara bianca”. Invece fu architettata una messinscena. Si è chiesto il perché anche Umberto Santino, presidente del Centro di documentazione Impastato di Palermo: «Agli occhi dei mafiosi Peppino, nonostante il suo “tradimento”, era pur sempre il figlio di Luigi, a quanto pare non formalmente affiliato ma comunque un fedelissimo “amico degli amici”’, ed era il nipote di Cesare Manzella, capomafia per lunghi anni, prima che si levasse la stella di Badalamenti, e anche se il padre e lo zio erano morti, gli altri parenti, come il fratello del padre, soprannominato “Sputafuoco”, erano vivi e vegeti», sostiene. Il delitto camuffato doveva servire, secondo questa versione, a depistare innanzitutto la famiglia e a evitare che essa, come da copione mafioso, pensasse di vendicarsi. Non temevano la giustizia dello Stato, gli assassini di Peppino, ma il codice d’onore. Così fosse, hanno sbagliato previsione.