La commissione Affari costituzionali del Senato inizierà a votare gli emendamenti al testo base sulle riforme costituzionali lunedì alle 16. Lo ha deciso ieri la stessa commissione, riunita con la ministra Boschi, e contestualmente ha fatto anche slittare ancora una volta i termini per la presentazione dei subemendamenti, fino alle 11 di questa mattina. L’aspetto paradossale dell’ennesimo slittamento è poche ore prima, nell’incontro con il M5S Renzi in persona lo aveva tassativamente escluso: «Discuteremo tutti gli emendamenti, ma i termini per la presentazione non li riapro». Detto e non fatto. Si sa che sulle date il velocista non è troppo affidabile.

Formalmente il rinvio del termine è dovuto alla richiesta avanzata da due gruppi: Sel e lo stesso M5S. In realtà la faccenda è più spinosa. Il governo è impantanato su due punti chiave e una nottata in più non guasta affatto. Il primo dei due nodi, il più vistoso ma forse non il più delicato, riguarda l’immunità. Renzi resta determinato a non impicciarsene. La Boschi se la cava con un po’ d’ottimismo d’ordinanza, «Troveremo una soluzione ragionevole», e avanza dubbi sulla possibilità di rimettere la decisione nelle mani della Corte costituzionale. L’ostacolo principale, anche se la ministra non può dirlo, è la ferma ostilità dei deputati a mettere la loro sorte nelle mani di un organo terzo, come sarebbe inevitabile se il Senato adottasse questa soluzione. Il nodo però è più aggrovigliato di così. Sia la ministra (con Renzi alle spalle) che la presidente della commissione rimangono infatti ferme sulla decisione di non accollarsi la responsabilità di una decisione a forte rischio da un lato di impopolarità e dall’altro di incostituzionalità. Salvo ripensamenti, finiranno dunque per rimettersi all’aula, cioè a un rodeo in cui può succedere di tutto.

Il secondo punto dolente è certamente meno nevralgico agli occhi dell’opinione pubblica, ma lo è molto di più per i partiti e in particolare per i contraenti del patto del Nazareno, Pd e Fi. Riguarda infatti i criteri più o meno proporzionali in base ai quali definire la rappresentanza delle diverse regioni nel prossimo Senato. Gli azzurri insistono per un criterio rigorosamente proporzionale, cioè perché ogni regione sia rappresentata sulla base del numero dei suoi abitanti. Una formula che, almeno sino a qualche tempo fa, avrebbe certamente avvantaggiato il centrodestra, tradizionalmente forte nelle regioni più popolose come la Lombardia e la Sicilia. Per gli stessi motivi il Pd preferisce correggere il proporzionalismo puro. È vero che con Renzi il primato del centrodestra in quelle regioni vacilla o crolla, ma non si può mai dire ed è meglio non basarsi solo sul trionfo delle ultime europee: si sa che in quelle elezioni il peso della clientela locale è limitato. È probabile che questo capitolo sia stato uno di quelli toccati ieri da Renzi negli incontri con Gianni Letta e con il capo dello Stato, oltre naturalmente al capitolo fondamentale delle nomine europee.

Nessun patema invece sul problema sino a ieri principale, l’eleggibilità diretta dei senatori. È vero che l’Ncd ha presentato un emendamento che propone appunto l’elezione diretta, ma più per testimonianza e propaganda facile che per altro. Con la Lega e di conseguenza anche Fi che fanno muro con Renzi sull’elezione «di secondo livello», o nomina che dir si voglia, quella via è del tutto impraticabile. Più si avvicina il traguardo per la riforma del Senato (e per la non-riforma del Titolo V, svenduta alla Lega in cambio del suo prezioso appoggio sul fronte del Senato), più si fa dolente il capitolo legge elettorale. Con i pentastellati il premier ha escluso ogni possibilità di accedere alla proposta di Grillo. Non significa però che l’Italicum sia destinato a rimanere com’è. Verrà invece cambiato, e profondamente, anche se ancora non è chiaro come. La manovra non sfugge a Fi, che teme modifiche troppo radicali e mette le mani avanti: «L’accordo resta sull’Italicum e siamo pronti ad approvarlo nei tempi previsti», avverte Romani.