La riflessione politica nazionale sull’immigrazione non riesce a uscire dalla complessità sottesa al fenomeno. In effetti, le politiche migratorie (verso l’interno e l’esterno) dovrebbero essere associate alla questione demografica e alle sue implicazioni economiche e sociali che, recentemente, sono precipitate nella spiegazione della così detta Stagnazione Secolare. Sebbene la tesi della Stagnazione Secolare cattura, probabilmente, lo stato dell’arte dell’attuale assetto economico, prefigurando degli scenari di crescita contenuti (alcuni economisti pensano che siamo nel pieno di una crisi di paradigma tecno-economica, altri rispolverano il tema della trappola della liquidità, altri ancora puntano l’attenzione sulla distribuzione del reddito), l’interpretazione della crisi ha escluso un tema fondamentale: la demografia. Quest’ultima ha delle implicazioni dirimenti sul come e quanto la dinamica del PIL, pur non crescendo o crescendo poco, modifica la combinazione tra capitale e lavoro, così come sulle caratteristiche intrinseche dell’output, ovvero la domanda effettiva prima e potenziale poi, condizionano gli attori economici e l’incertezza sottesa al “ciclo economico”. La polarizzazione demografica cambia la struttura dell’economia e quindi la struttura della società. Ma quanto è importante il tema demografia e quali sono le implicazioni?

Sappiamo dall’Istat che da troppo tempo il Paese invecchia, che la “meglio gioventù” emigra, che gli immigrati sono sempre troppo pochi per invertire la polarizzazione della popolazione. Sebbene l’immagine di una popolazione sempre più anziana e con un ricambio generazionale negativo sia in sé grave, l’effetto macroeconomico è ben più rilevante di quanto non si immagini. In effetti, l’evoluzione demografica della popolazione è la sfida secolare di struttura che meglio di altre manifesta la necessità di trovare nuovi e superiori equilibri; se la percentuale di persone over sessant’anni aumenta nel tempo rispetto a quella degli under trenta, come effetto del miglioramento dei servizi sanitari e delle aspettative di vita, la struttura dei consumi e degli investimenti rifletterà questo nuovo assetto della popolazione. Dalla statistica sappiamo che i consumi della popolazione più giovane e della popolazione più anziana differiscono per contenuto e quantità. In generale i consumi della popolazione più anziana soddisfa la domanda di beni primari, mentre la popolazione più giovane è per lo più interessata alla domanda di beni secondari a maggior contenuto tecnologico. L’effetto indesiderato è quello di uno spiazzamento della crescita dei beni secondari a favore dei beni primari legato alla riduzione della fascia di popolazione più giovane che, in ultima istanza, è quella che permette l’accumulazione capitalistica. In altri termini, senza una popolazione giovane sufficiente, la crescita del PIL potenziale si riduce, pregiudicando la domanda di lavoro e quindi il reddito della popolazione nel suo insieme. Per l’Italia il fenomeno si presenta in misura ben più grave della media europea, esasperata dall’emigrazione dei giovani che non trovano lavoro in Italia e da un’immigrazione che con il passare degli anni si è ridotta quanto e come la dinamica del PIL. Più che le politiche di Minniti e Salvini, la riduzione del PIL nazionale ha allontanato e ridotto l’immigrazione verso l’Italia.

Il punto non è aiutare queste persone a casa loro, uno slogan che non fa i conti con la storia, piuttosto su come l’immigrazione e il contenimento dell’emigrazione dei giovani debbano concorre a sviluppare una politica economica e sociale adeguata. Per colmare la forbice tra la domanda potenziale dei beni secondari e quella effettiva legata ai giovani sarebbe necessaria una sorta di “socializzazione degli investimenti”; investimenti che compensano il nuovo assetto (strutturale) della società, sia in termini di composizione anagrafica, sia in termini di target dei consumi. Diversamente, infatti, i beni primari delle persone più anziane diventerebbero non solo il perno dello sviluppo economico, ma step by step comprimerebbe la base del benessere legata alla dinamica dei beni secondari, con una contrazione strutturale della domanda effettiva e, peggio ancora, da una contrazione del PIL potenziale legata alla socializzazione degli investimenti che, in ultima istanza, sono beni pubblici per la collettività. La sfida che i flussi migratori sollevano sono di diritto naturale (relativo alle persone) e di diritto positivo (relativo alla società). Diversamente la questione rimane una discussione tra bene e male, trascurando che il bene e il male sono figlie della società che intendiamo costruire.