Nel febbraio del 1901, mentre gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra delle Filippine, Mark Twain pubblicò un articolo provocatoriamente indirizzato Alla persona seduta nell’oscurità, ovvero il presunto ‘selvaggio’ delle colonie che aspettava la luce della civiltà: «Devono esserci due Americhe», scrisse Twain da fervente anti-imperialista, «una che libera i prigionieri, e una che toglie la libertà appena conquistata da un ex prigioniero, mettendosi a litigare con lui senza fondamento; e poi lo uccide per prendersi la sua terra».

In effetti, dopo aver ‘liberato’ le Filippine dal dominio spagnolo nel 1899 – soprattutto grazie agli sforzi dei rivoluzionari guidati da Emilio Aguinaldo, che combattevano l’esercito di occupazione già da tre anni –, gli Stati Uniti rifiutarono di riconoscere la costituzione della Repubblica Filippina e negarono l’indipendenza dell’arcipelago, trasformando di fatto un’azione propagandata come guerra di liberazione in una vera e propria annessione coloniale. Twain non aveva tutti i torti, quindi, a proporre agli Stati Uniti di adottare nelle Filippine una bandiera a strisce rosse e nere, con teschio e tibie incrociate al posto delle stelle.

Il libro di Daniel Immerwahr L’impero nascosto Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America (traduzione di Chiara Veltri e Paolo Bassotti, Einaudi, pp. 616, € 34,00) racconta la storia, troppo spesso dimenticata, di questa «seconda» America, rileggendo le fasi cruciali dello sviluppo della nazione dalla prospettiva dei suoi possedimenti extra-continentali. Docente di storia presso la Northwestern University, Immerwahr unisce al rigore scientifico dell’indagine storiografica innegabili doti di storyteller, padroneggiando tecniche tipiche della scrittura narrativa che vanno dall’uso di analessi e prolessi alla caratterizzazione psicologica dei protagonisti. La sua storia degli Stati Uniti «allargati», oltre a illuminare di nuova luce eventi ben noti come Pearl Harbor o la conquista del West, mira a far emergere attraverso accurate ricerche e documenti d’archivio episodi meno conosciuti, svelandone l’estrema rilevanza sociopolitica nel contesto globale.

L’impero «puntillista»
Più che come un avvincente romanzo, il saggio si legge come un dramma, diviso in tre atti: l’espansione a Ovest, la nascita dell’impero americano con la sistematica annessione di territori oltremare (prima isolette disabitate, poi regioni sempre più vaste che alla fine della Seconda guerra mondiale costituiscono circa un quinto della superficie della nazione), e finalmente la fase odierna dell’impero «puntillista», quando gli Stati Uniti si impongono come «nuovo modello di potenza globale, che non tanto reclama vaste porzioni di terra quanto esige il controllo di piccoli punti» dall’elevato valore strategico.

Dalla lettura risulta chiaramente come, oltre a denotare uno specifico territorio geografico, «America» si conferma quale concetto mentale in grado di veicolare idee spesso contrastanti e ambivalenti; come notava Alessandro Portelli in un saggio dal significativo titolo Dove comincia e dove finisce l’America, negli Stati Uniti «solipsismo e sindrome d’assedio convivono da sempre, in paradossale simbiosi», al punto che i confini della nazione di volta in volta spariscono, si moltiplicano e si sovrappongono: al di là di essi «il mondo cessa di esistere oppure preme per entrare», a seconda delle inclinazioni economiche e politiche del momento. Anche per questo, ricorda Immerwahr, la «mappa-logo» che raffigura gli Stati Uniti come un territorio compatto situato tra Canada e Messico «non corrisponde ai confini legali del paese»; oltre a escludere le Hawaii e l’Alaska – diventati stati nel 1959 – lascia fuori anche Puerto Rico e gli altri possedimenti oltremare, dando l’erronea impressione che «gli Stati Uniti siano uno spazio politicamente uniforme: un’unione, in cui si entra volontariamente, di stati che sono tutti su un piano di parità», mentre sarebbe più corretto parlare di «un insieme di stati e territori» se non addirittura di un paese «diviso in due sezioni, in cui si applicano leggi diverse».

Nel corso della sua traversata della storia americana, Immerwahr ci ricorda ad esempio come, nella prima metà dell’Ottocento, l’amministrazione Jackson avesse pensato di trasformare l’Ovest «in qualcosa di simile a una colonia indiana», un’ampia regione che inizialmente ricopriva il 46% del territorio nazionale ma che in pochi anni si ridusse all’odierno Oklahoma; quando una federazione di tribù native propose di fondarvi uno stato misto chiamato Sequoyah il progetto venne bocciato, finché anche quell’ultima porzione di territorio fu assegnata ai bianchi. Scopriamo poi che nei primi anni del Novecento le colonie oltremare erano utilizzate dal governo americano come banchi di prova per inumani esperimenti medici sulle popolazioni locali (è successo a Puerto Rico), oppure come «parchi gioco» dove gli architetti più visionari potevano sviluppare progetti urbanistici invasivi (è il caso della città di Baguio, nelle Filippine, costruita ex-novo come capitale d’estate e luogo ricreativo per le élite bianche) senza doversi scontrare con gli impedimenti politici, sociali ed economici inevitabili nelle grandi metropoli del continente.

Una profonda riflessione sull’importanza del linguaggio usato dal governo americano come arma di distrazione di massa per rendere accettabile il proprio operato in ambito coloniale è tra gli aspetti più interessanti dell’Impero nascosto. I possedimenti oltremare degli Stati Uniti vengono tuttora chiamati territori, termine apparentemente più neutro e sfumato rispetto a colonie e che rimanda implicitamente al periodo della Frontiera, contribuendo a sostenere «la fantasia che i coloni stessero domando una terra di nessuno disabitata». In maniera simile, un documento riprodotto nel libro svela come il celebre discorso alla nazione pronunciato da F. D. Roosevelt all’indomani dell’attacco a Pearl Harbor fosse stato espressamente modellato allo scopo di eliminare ogni riferimento alle Filippine e a Guam, dove gli attacchi avevano avuto conseguenze ben più gravi, per concentrarsi invece sulle Hawaii, che, in quanto «più vicine all’America del Nord e significativamente più bianche degli altri», erano ritenute «più plausibili come territorio americano» e quindi più adatte a scatenare l’indignazione pubblica.

Dagli appunti del discorso si nota come l’«impero giapponese» non avesse bombardato «l’isola di Oahu» (questo risulta dalla prima bozza), ma «l’isola americana di Oahu», provocando la morte di «moltissimi americani». In realtà l’occupazione delle Filippine e la successiva riconquista da parte degli Stati Uniti provocarono un milione e mezzo di vittime, un numero di gran lunga maggiore rispetto a quelle delle Hawaii; eppure, nonostante a tutt’oggi rimanga l’evento più sanguinoso mai avvenuto sul suolo americano, nei manuali di storia è appena accennato.

Colonie svanite
Le questioni sollevate da Immerwahr non riguardano solo l’America, sono invece fondamentali per comprendere l’odierno assetto politico globale: perché gli Stati Uniti, pur avendone avuto la possibilità tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, non si sono apertamente trasformati in un impero coloniale come quello britannico? Con quali procedimenti le colonie americane, una volta acquisite legalmente, «svaniscono» dai discorsi dei media e dall’attenzione pubblica? Qual è lo statuto legale degli attuali possedimenti americani extra-continentali, tra cui le oltre ottocento basi militari sparse per il mondo (contro le circa trenta mantenute da tutti gli altri paesi messi insieme)? Se davvero, come conclude Immerwahr, «la storia degli Stati Uniti è la storia di un impero», il suo libro ci mostra senza mezzi termini come gli Stati Uniti siano riusciti a tenerlo nascosto persino ai propri cittadini, molti dei quali ignorano che il loro paese possiede ancora oggi territori oltremare abitati all’incirca da quattro milioni di persone.