Sul lago Lemano, a Nyon, poco lontano da dove vive Jean-Luc Godard, Visions du Reel – che si è aperto ieri – conferma a ogni edizione di essere uno di quei passaggi «obbligati» per chi lavora nel documentario (programmatori, curator, produttori, distributori …) e, più in generale, per chi vuole esplorarne i diversi orientamenti e tendenze. La selezione, molto ampia, suddivisa in diverse sezioni -tra le altre tre concorsi, lungometraggi, mediometraggio, corti e poi i «Primi passi», dedicato ai giovani cineasti e «I nuovi sguardi» per la scoperta di talenti eccentrici- grazie alla cura minuziossima con cui viene fabbricata dal direttore artistico, Luciano Barisone, offre infatti molti esempi del «fare documentario» oggi, spesso sul confine, sicuramente sempre lontani dalle semplificazioni del genere. Altro dato, non meno importante, è la presenza di un mercato, forse tra i più grandi in Europa per i doc. All’interno del quale c’è spazio per la presentazione dei progetti ancora in corso, per l’incontro con eventuali co-produttori, per chiudere il budget ecc ecc.

 
Vsions du Reel, «Visioni» giustamente al plurale, è insomma il punto di partenza migliore per un film, lo ha dimostrato lo scorso anno l’esito del suo vincitore, Iraq, Year Zero, monumentale film del regista iracheno Abbas Fahdel (quest’anno nella giuria lunghi) che da allora ha fatto il giro del mondo, è uscito in sala in Francia, ha conquistato la critica mondiale – in Italia è arrivato grazie al festival milanese Filmmaker, dove ha avuto il secondo premio.

 

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Venti i lungometraggi che scorreranno nei prossimi giorni sugli schermi della cittadina svizzera, diciotto i corti e i medi. Tra i giovanissimi italiani c’è Leandro Picarella, siciliano, col suo Triokala, e poi I Cormorani di Fabio Bobbio, esordio promettente di un regista da tenere d’occhio con un racconto dell’adolescenza, di un’amicizia, di un paesaggio fisico e emozionale.

 
Tra i lunghi in gara c’è un film particolarmente atteso: si chiama Gulistan, «Terra delle rose», la regista, Zayne Akyol, ha filmato la battaglia contro il Daesh delle giovani donne curde del Pkk, le stesse che sull’altro versante devono sfuggire agli attacchi del regime di Erdogan nel silenzio ricattato perciò complice dell’occidente.
La regista condivide il loro spazio, quel tempo che separa da uno scontro teso e continuo; ne segue gli allenamenti, filma l’attesa del nemico ma anche lo srotolarsi del quotidiano, i sentimenti che sbocciano nonostante tutto.

 
Per capire il festival, e il suo sforzo di mescolare ricerca anche molto ardua e attrazione popolare – il pubblico locale – una buona chiave sono le retrospettive. Che uniscono il premio «Maestri del Reale», quest’anno consegnato a Peter Greenaway, in apparenza il meno «documentarista» dei registi possibili – anche se godardianamente è proprio la messinscena che svela nel profondo la realtà – e Dominic Gagnon.

 

 

Un nome poco noto in Italia quello del cineasta e artista canadese che lavora a partire dai materiali sul web. Creatore di performance e di installazioni, Gagnon è uno di quegli autori che esprimono la contaminazione oggi molto forte tra le forme, le materie, le metodolgie. Le sue sono immagini che escono dai bordi dello schermo nella loro origini prima ancora che nella loro possibile fruizione

 

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. Nato nel Quebec, in una cittadina di «soli trentamila abitanti» dove, come racconta lui stesso,i soli film che riusciva a vedere erano quelli sulle gare di snowboard o di skateboard, Gagnon comincia a girare film (snowboard anche lui) insieme al fratello, tra i due la macchina da presa rimaneva nelle sue mani. Internet arriva più tardi, dopo la scuola di cinema che non gli piaceva, dopo Shining visto in tv da ragazzino che gli ha fatto capire la presenza di un montatore dietro le immagini, e forse dopo la fantascienza che adora. «In un primo momenti internet era una forma di distrazione, con gli anni è diventato il soggetto dei miei film.

 

 

Passavo moltissimo tempo in rete e a un certo punto ho pensato di utilizzare le immagini che avevo a disposizione». In fondo anche qui una specie di «altrove reale».
Nel suo «Atelier» – con masterclass – verranno presentati tutti i suoi film, da Du moteur à explosion sul rapporto uomo-macchina a On the North, quasi una rivisitazione del Nanook di Flaherty per denudare gli stereotipi sugli Inuit.