Quando nel 1992 Jean Marie Teno gira Africa, je te plumerais, l’immaginario del continente è già attraversato da una nuova generazione di registi, tra i quali oltre a Teno ci sono Idrissa Ouedraogo o Sissako, che rivendica la necessità di uscire da un racconto miserabilista per recuperare la potenza di immagini aperte, non asservite a nessuna parola d’ordine. «Vado a vedere un film perché è bello non perché è africano» ripeteva spesso a proposito Ouedraogo, riassumendo così il senso di una ricerca – anche «scomoda»- che rifiutava appunto il pauperismo come gli ammiccamenti al paternalismo sentimentalista occidentale o la vocazione «didattica» dei padri – da Sembene a Medo Hondo e Omarou Ganda.

Africa, je te plumerai è di queste esigenze un manifesto. Ma cosa racconta il film di Teno, camerunense trasferito a Parigi dove aveva studiato comunicazione e tecniche audiovisive, formandosi poi in una tv come montatore? Il titolo è esplicito, significa «Africa, ti spennerò», con una dichiarata allusione alla rapacità internazionale soddisfatta dai colonialismi vecchi e nuovi che la continuano a ridurre in miseria. Non era la prima volta che Teno parlava della sua realtà presente con prepotenza già dai primissimi lavori come il cortometraggio Schubbah (1983), che aveva girato a Ouagadougou durante le Giornate del festival africano (Fespaco). In una intervista a questo giornale parlando del X Fespaco (1987) diceva: «Le tendenze che stanno emergendo nel cinema africano in questo momento sono tutte interessanti. Quello che rifiuto è invece il discorso demagogico che ci distoglie completamente dalle preoccupazioni odierne dei nostri paesi». Ecco che dunque, qualche anno più tardi Teno affronta quel presente in una critica durissima verso i «partiti unici» che condannano l’Africa alla corruzione, all’intolleranza, alla miseria, una condizione che però non può essere separata dalle responsabilità sempre attuali del colonialismo e post – Said lo ha spiegato con molta chiarezza – dalla sua violenza prolungata nelle politiche dei diversi governanti.

ERA IL  1992, dall’indipendenza erano passati trent’anni, altrettanti ne sono trascorsi da quel film a oggi e molte di quelle possibilità hanno avuto esiti diversi; il cinema africano dell’epoca come diversi suoi autori si è continuato a scontrare con la mancanza di mezzi produttivi più autonomi e di un sostegno istituzionale – eppure il cinema come diceva Sankara in un continente ove l’analfabetismo è ancora radicato poteva essere un mezzo di educazione e di potenziale consapevolezza preziosissimo – o è forse questo il punto?Quello che rivendicavano Teno e gli altri era soprattutto una indipendenza di sguardo e una invenzione formale che interrogava i propri soggetti col cinema: era una sfida impossibile?

OGGI da qualche anno c’è un nuovo movimento, giovani generazioni che sono ripartite da qui, dall’autonomia del pensiero e da una sperimentazione che cerca nuove forme cinematografiche provando a ricostruire spazi di resistenza dentro alle immagini, e un diverso racconto di sé che contrasta con la narrazione comune. Sono storie che nascono dal quotidiano o che da lì si allargano alla memoria coloniale, che parlano di sfide come costruire la possibilità di studiare o di coloro che decidono di partire.
È tra questi molti cortocircuiti che lavora la proposta di Cinéma du Reel, il festival parigino dedicato al documentario che si apre oggi – fino al 20 marzo – al Centre Pompidou, con la direzione artistica di Catherine Bizern. Un’edizione (la 44a) che significa anche il ritorno in sala della manifestazione costretta due volte allo streaming dalla pandemia – due anni fa debuttò proprio alla vigilia del primo lockdown.

«L’AFRICA documentaria», questo il titolo della rassegna, non è una semplice retrospettiva storica – anche se proporre i titoli di una storia del cinema poco riconosciuta è molto importante – ma prova a tracciare le linee di un immaginario sensibile, la cui materia è stata rivoluzionaria nei temi e nelle scelte di un punto di vista. La programmazione è composta di più capitoli:un primo coi dieci «numi tutelari» del cinema africano, opere che hanno affermato la necessità di una poetica/politica. Si va da Cabascabo (1969), esordio di Omarou Ganda (anche interprete), girato a Niamey, in bianco e nero, il cui protagonista è un ex soldato dell’esercito francese coloniale che torna in Niger e dilapida tutto il suo denaro. Ai quattro corti di Attiat Al Abnoudy, realizzati tra il 1971 e il 1983, madre del documentarismo egiziano – è morta nel 2018 – nata sul Delta del Nilo; generazione anni ’60 che ha creduto nel sogno egualitario di Nasser nei suoi film ha raccontato la gioia, la lotta e i sogni di chi eredita l’antica saggezza dei «miserabili» per sopravvivere.

Il secondo capitolo presenta dodici registi contemporanei come Ousmane Samassekou col suo Le dernier refuge (2020), la Casa dei Migranti a Gao, sul bordo del Sahara, dove si incontrano i sogni e le paure di chi si ferma lì prima di affrontare il deserto che lo porterà in Algeria e verso l’Europa e di chi torna indietro. Softie di Sam Soko, regista che vive a Nairobi e nella sua opera prima segue la campagna elettorale di Boniface «Softie» Mwangi, attivista in Kenya, tra corruzione e violenza degli avversari. Nnuba (2019) di Sonia At Qasi-Kessi, fotografa e regista algerina entra in un’antica organizzazione di donne che a turno pascolano il bestiame.

Infine una Carte blanche affidata a sei personalità africane (Claire Diao;Jihan El-Tahri; Pedro Pimenta; Mohamed Saïd Ouma;Ikbal Zalila ; Mandisa Zitha) e una serie di incontri sulla produzione.