Al Fid Lab del Fid Marseille 2015 hanno vinto un po’ tutti. Su undici progetti selezionati (tra i trecento ricevuti) ne sono stati infatti premiati sette, premi molto diversi che vanno da otto settimane di supporto al montaggio (Silencio di Christophe Bisson) a una residenza tra le 4/8 settimane (Apprenticeship of a Criminal di Philip Warnell). Al Dcp del film con servizi di postproduzione offerti dalla Vidéo Poche (Tempo Vertical di Louis Patino) all’adattamento e sottotitoli (AgonTimé di Larissa Figuereido).

 

 

 

Cosa è, dunque il Fid Lab? Una piattaforma produttiva su un modello piuttosto diffuso ormai nel mondo. La sua particolarità è quella di prediligere il cinema di ricerca e produttivamente indipendente, e autori vicini spesso in affinità (giustamente) alla «visione editoriale» del festival. Per fare un esempio: Philipp Warnell ha vinto il Fid lo scorso anno con il molto bello Ming of Harlem. Il suo Apprenticeship of a Criminal mescola più piani, narrativo, archivi, cronaca ispirandosi a un fatto accaduto a Londra, la storia di un uomo, Arthur Tresadern, che scopre criminalità e violenza sullo sfondo dell’Arnold Circus, il primo Hlm del mondo. E ancora Larissa Figuereido ha presentato in uno «Schermo parallelo» The last Vodunsi, sull’ultima Regina del vudu africano in Brasile.

 

 

La formula è semplice. I progetti selezionati vengono presentati dai registi in due giornate a professionisti, produttori, televisioni, programmer ecc ecc. In più c’è una giuria – quest’anno Amra Baksic-Camo (Festival di Sarajevo), Thomas Pibarot (Le Pacte), David Schwartz (Museum of Moving Images) che assegna i premi.

 

 

Tra molti giovani registi (prossionalmente parlando) capita anche di incontrare i progetti di autori più conosciuti a livello internazionale, che praticano comunque un cinema di ricerca e il fatto di avere risonanza nel mondo non significa sempre trovare facilmente dei fondi. Negli anni passati al Fid Lab ha presentato Sacro Gra – in una fase ancora molto primitiva – Gianfranco Rosi, prima di lui Yervant Gianikian e Angela Ricci il loro magnifico Note sui nostri viaggi in Russia, e quest’anno Avi Mograbi ha discusso il suo prossimo film, Entre les frontières. Tra i partecipanti c’era anche Lee Lynch (The Last Buffalo Hunt), il suo In the Land of Meadows (codiretto insieme a Torgbjorg Jonsdottir) racconta l’arrivo dei vichinghi nell’America del nord.

 

 

Forse che nessuno dei registi più conosciuti non vinca mai sta nella fisionomia del Fid – si sente dire che chi ha dei produttori alle spalle non ne ha bisogno – riservato, appunto, a una dimensione più piccola. Ma allora perché selezionarli?

 

 

Il punto è proprio questo: che tipo di laboratorio vuole essere il Fid Marseille, diretto con alta professionalità da Fabienne Moris e Rebecca De Pas? Il rischio nel prediligere – al di là ovviamente dei premi che dipendono da valutazioni esterne – progetti di autori vicini al festival è un po’ quello di crerare in circolo chiuso, e vagamente autorefenziale, che poi è il limite più comune di strumenti come i «lab», e che qui, parlando di registi legati a una certa dimensione festivaliera – artie, ricerca – appare ancora più esclusivo.

 

 

Torniamo a Mograbi, anche per uscire dalle linee di cui sopra. Tra le frontiere come ha spiegato lui stesso, nasce da un fatto di cronaca. Non è la prima volta nei suoi film tutti radicati nella quotidianetà paradossale del suo Paese, Israele. Qui la storia riguarda un gruppo di profughi eritrei e etiopi che le autorità israeliane hanno respinto bloccandoli nel deserto per lasciarne passare alla fine solo tre. Degli altri non si è saputo più nulla. «Ho pensato che anche la mia famiglia quando è arrivata in Palestina per fuggire da Hitler erano dei rifugiati. Cosa sarebbe accaduto se li avessero respinti?». Certo le posizioni dell’Europa sui migranti e i richiedenti asilo non sono delle migliori ma la politica israeliana è ancora più netta se si pensa che su 45mila rifugiati eritrei la media accettata è di quattro.

 

 

Il film comincia da questo, tra una memoria familiare e una condizione che appare come il segno dei nostri tempi. Mograbi sta lavorando con un gruppo di profughi, ha raccolto i loro ricordi e vissuti che loro stessi interpretano insieme al ruolo dei rifugiati ebrei del passato. Aspettiamo il seguito.