È la lotta che mi interessa, la lotta e la sua natura, la sua durata … E nella lotta il nostro compito è raccontare delle storie, creare delle immagini. E anche essere certi che la gente che vi è coinvolta metta in gioco i propri corpi, sia riconosciuta». Queste poche frasi, dette da lui stesso in Four Days in Chicago (2013) esprimono con precisione obiettivi e set fisici e mentali di Haskell Wexler cineasta che per tutta la vita, in contemporanea al lavoro di direttore della fotografia ha girato, prodotto, fotografato film radicali e militanti, spesso realizzati in quasi clandestinità. Premio Oscar e nel mirino dell’Fbi quando insieme a Emile De Antonio gira Underground, una lunga conversazione con i Weather Underground, il gruppo antagonista americano allora clandestino. «Ho ripreso due giorni di incontri con cinque del gruppo in fuga in una casa a Los Angeles. Poco dopo mi sono reso conto di essere sorvegliato dall’Fbi. Un elicottero mi seguiva ogni volta che uscivo di casa. Due tizi, degli agenti in borghese, hanno fatto finta per due gioni di cambiare una ruota della loro automobile davanti alla mia abitazione. Sono entrati in casa, hanno frugato in tutti i miei documenti e mi hanno rubato la statuina dell’Oscar».

 

 

Al cinema di Haskell Wexler il festival parigino del documentario Cinema du Reel ha dedicato nella scorsa edizione (marzo 2015) un importante omaggio curato da Nicole Brenez (dal suo testo abbiamo preso le citazioni di Wexler), presentando i suoi film politici nei quali la macchina da presa diviene strumento, anzi quasi un’arma con cui mettere a nudo le responsabilità dei governi, degli stati, dei servizi segreti, della polizia, le dinamiche di una geopolitica della violenza e della repressione. Un gesto di lotta, appunto, e forse per questo Wexler predilige una dimensione di lavoro collettiva, contro ogni ambizione autoriale. E insieme una storia non ufficiale dell’America.

 

 

«Dopo avere lavorato in molti cortometraggi educativi come assistente operatore, volevo provare a volare con le mie ali. Sono andato del sud degli Stati uniti per girare un film sui lavoratori che erano utilizzati dai sindacati operai per migliorare la struttura della loro organizzazione» racconta Wexler.

 

 

Nella selezione, accompagnata a Parigi da Pamela Yates, tra i suoi più stretti collaboratori, c’era un film importante come Brazil: A Report on Torture (1971), in cui viene data voce a quei rivoluzionari che si battono contro la feroce dittatura brasiliana, resistendo alle le torture fisiche e psicologiche con il loro ideale di lotta. Alcune di queste immagini le abbiamo riviste,nel bel documentario di Anita Leandro Retratos de Identificação, la vita e la lotta di Maria Auxiliadora Lara Barcellos detta Dora, militante del Var, il movimento operaista che negli anni Settanta combatte la dittatura in Brasile, di Antônio Roberto Espinosa, comandante del Var, e di altri compagni che affrontano questa tortura insopportabile, devastante come mostrano le facce gonfie e stravolte sulle immagini prese in galera dei prigionieri. Dora che Wexler filma bella e combattiva, fuggirà esiliata in Europa, in Germania, dove si suicida.

 

 

Nel ’63 Wexler era a San Francisco su un bus di manifestanti in viaggio per la «Grande marcia su Washington», quella in cui Martin Luther King pronuncia il suo storico discorso »I have a Dream». E insieme a Saul Landau in Target Nicaragua: Inside a secret War, indaga sulle azioni dirette o indirette della Cia contro il governo di Ortega che gli Stati uniti rifiutano di riconoscere.
Nel 2012, in Four Days in Chicago, segue le proteste contro il vertice della Nato. Vi ritroviamo tra gli altri anche James Foley, il giorioanlista amerocano che sarà decapitato dal Daesh in Siria.