La festa per la coppa del mondo, un temporale che ha lasciato tutti sbalorditi – «A Marsiglia non piove mai» commentavano col naso per aria i volontari del festival . Il Fid numero 29 ha attraversato in pochi giorni molti eventi sfidando un «ponte» – di mezzo c’era anche il 14 luglio coi fuochi d’artificio – da far rabbrividire qualsiasi programmatore di festival. Eppure ce l’ha fatta, le sale erano piene con le normali oscillazioni di ogni programma festivaliero – e i gruppi di fedelissimi neocinefili, coloro che prediligono il passato, in questo caso l’omaggio all’icona warholiana Edie Sedgwick, con film rari (e magnifici) come gli schermi moltiplicati di Outer and Inner Space (1965) e Lupe (1965).

 

Hanno vinto il concorso internazionale Albert Serra (Roi Soleil) e Dora Garcia (Segunda Vez) la giuria (Eduardo Williams, Sepideh Farsi, Paula Galtàn, Tarek Atoul, Astrid Arverbe) ha deciso un ex-aequo con menzione speciale a La Cruces. Nella competizione francese invece è stato scelto Seuls les pirates di Gael Lepingle, niente per uno dei film più stupefacenti di questa edizione, Las Grands squelettes di Philip Ramos. Peccato, soprattutto perché nell’«economia» del festival che ha puntato più decisamente sul cinema narrativo, è l’unico che si interroga in modo originale (e compiuto) sulla propria messinscena.

 

Cercare forme che vogliono superare la distinzione di genere – finzione/documentario – esige i una coerenza e un’attenzione di sguardo che purtroppo in molti dei titoli di entrambi i concorsi è mancata. Prendiamo Mitra di Jorge Léon. Il punto di partenza è la storia di una donna, una psicanalista iraniana, Mitra Kadiva, che nel 2012 viene internata di forza. Questa esperienza, narrata in uno scambio epistolare che ne rivela la violenza, con lo psicanalista Jacques-Alain Miller, diviene il punto di partenza per una narrazione della malattia psichiatrica attraverso le storie di alcuni malati, ogni voce dichiara il tentativo di ritrovare un racconto contro silenzio che si intreccia a quella della donna rinchiusa a Tehran.

 

Léon però quasi non credesse in questo materiale di estrema potenza decide di inserire degli attori, un’orchestra, un coro narrante soffocando i personaggi. Perché? L’accumulo di elementi non necessari nasconde quanto di più prezioso, ovvero un vissuto che si dovrebbe maneggiare con delicatezza fino a renderlo invisibile di nuovo, quella stessa invisibilità a cui ciascuna di queste persone dice di essere condannata.
Roi Soleil è come suggerisce il titolo una variazione su La Mort de Louis XIV anche se di quel film, molto bello, non conserva nulla se non la suggestione iconografica di un sovrano sfatto, afasico, che emette gemiti e grugniti mentre rotola col suo parruccone in terra masticando ogni tanto un dolcetto. Jean Pierre Léaud, che sul suo corpo assumeva nel film precedente di Serra quella lunga morte, fine di un’epoca e smascheramento della Storia, non c’è più; Roi Soleil rimanda infatti alla perfomance allestita in una galleria a Lisbona con l’attore, già complice nei film di Albert Serra, Lluis Serrat, quasi irriconoscibile .
Senza decor, col pubblico che al posto dei cortigiani, tutto viene inquadrato all’altezza del corpo che rotola sul pavimento, la «cifra« decisa per restituire la perfomance (che era però di 22 ore). E poi? L’immagine del potere e l’ironia dei suoi «vizi» non affiorano in questa sorta di mugugno e neppure la dimensione del corpo, l’atto performativo.

 

Non è una questione di «storia» se prendiamo Outer and Inner space, sugli schermi in bianco e nero c’è Edie Sedgwick che parla, fuma, sorride, non accade nulla ma accadono infinite cose, la sua presenza nel bianco e nero di Warhol è tempo, immagine, movimento. Equesto è il punto: cercare nuove e diverse forme di narrazione con cui «affrontare il mondo, il cinema, il sentimento contemporaneo può tradursi anche in un gesto (cinematografico) molto semplice il cui valore è lo sguardo che esprime, il progetto che afferma, la sua «misura» artistica (poetica, politica) senza i quali rimane solo una superficie liscia.

 

Las Cruces di Carlos Vasquez Mendes e Teresa Arredondo Lugon è un film «semplice» che utilizza però i suoi materiali – a cominciare dal rapporto parola/immagine – con molta consapevolezza per restituire la vicenda di diciannove operai della cartiera CMPC a Laja, scomparsi l’indomani del golpe militare contro Allende in Cile. Sono comunisti, sindacalisti, tra loro c’è un professore molto conosciuto. Decenni dopo, oggi, alcuni dei militari e poliziotti locali decidono di rompere il patto del silenzio sancito all’epoca. Sono stati loro a rapirli e a ucciderli seguendo una lista della proprietà della fabbrica e su ordine governativo. Hanno seppellito i corpi malamente sotto un po’ di terra, la gente del posto sapeva ma aveva paura, di notte accendevano candele e portavano i fiori. Un crimine del potere, uno dei tanti, ricostruito a partire dagli atti dell’inchiesta, dalle deposizioni – «Obbedivo agli ordini» come diceva Eichmann durante il processo.

 

Sulle voci  gli stessi luoghi oggi. Nelle campagne restano le croci dei tanti assassinati ancora anonimi, senza una giustizia. Anche la cartiera è lì, non ha cambiato nome. Le confessisoni – che hanno la voce dei familiari delle vittime – diventano dunque un archivio per le immagini mancanti, sono la parola necessaria, a colmare questo vuoto. Non c’è bisogno di più se non appunto, di senso, e di uno sguardo che lo produce e si dichiara. Perché anche truccarsi o rovesciare la testa sul gabinetto (Lupe) può diventare un momento sublime (di cinema).