Eroico. Ribelle. Euforico. Determinato. Amato. Sono alcune delle parole «guida» dell’edizione 2019 del Festival di Rotterdam, che si è chiuso domenica, disseminate tra i manifesti, sulle pagine del catalogo, sul sito on line (ottima la app ), tra le molte sale e sulle pareti del Doelen, sede del festival, dove a un certo punto del giorno tutti (o quasi) finiscono per incrociarsi.

Ha vinto il Tiger (in giuria Alfredo Jaar, Daniela Michel, Susanna Nicchiarelli, Katriel Shory, Pimpaka Towira) Present. Perfect., in prima mondiale, della regista cinese Zhu Shengze, classe 1987, anche produttrice con la sua società, la Burn the Film, fondata insieme all’artista Yang Zhengfan, al terzo film dopo Distant (2013) esordio molto premiato nel mondo così come il successivo Another Year (2016).

A QUESTO progetto Zhu Shengze ha iniziato a lavorare mentre viveva a Chicago guardando le dirette streaming da tutta la Cina. «Nel 2017 c’è stato un terribile incidente, un ragazzo è morto cadendo da un edificio mentre stava facendo un live streaming. Ho scoperto molte strane cose che si fanno in queste dirette. La gente cerca di attirare l’attenzione di chi guarda in ogni modo: c’è chi vende oggetti bizzarri, chi propone danze sexy, qualcuno mangia vermi vivi altri inventano giochi per sfidarsi sui laghi ghiacciati nel nord della Cina. Ho anche trovato persone che usano lo streaming per connettersi agli altri mentre nella vita reale sono completamente isolati».

PER SEI mesi la regista ha seguito quelli che sono diventati i suoi personaggi, con l’ansia di perdere qualcosa visto che non ci sono piattaforme dove recuperare queste dirette. Il risultato sono state circa 800 ore di materiali divenute poi Present.Perfect., un ritratto della Cina, o forse del mondo contemporaneo in cui il limite tra virtuale e reale appare sempre più confuso. Con la specificità anche del business e della censura, le autorità cinesi sono molto severe con queste dirette che spesso vengono chiuse – a un certo punto vediamo un tipo che lascia acceso il telefono davanti a una sigaretta mentre va al bagno, una cosa che non è permesso di mostrare. Diversi personaggi spariscono nel corso del film, e il paesaggio muta velocemente un po’ come la realtà. Uno riesce a trovare lavoro, un altro ripete la vita di ogni giorno infinite volte, le immagini «adattate» al bianco e nero sono sgranate, piene di pixel. Ma questa è anche la scommessa del film che costruisce un archivio «in diretta» del presente – lo aveva già fatto in Dragonfly Eye Xu Bing ma lì c’era una storia con dei personaggi oltre i materiali dello streaming – interrogando al tempo stesso il cinema, le immagini, qui messe al confronto con la declinazione di oggi, la quantità infinita in cui vengono prodotte che ne modifica l’abitudine e la percezione.

Usa l’archivio, ma più «classico» Karin Cuyul in Historia de mi nombre – nella sezione Bright Future, menzione speciale – una indagine che la regista compie per cercare, come suggerisce il titolo, le origini del suo nome, Karin come Karin Eitel una giovane donna che nell’87, poco prima della fine della dittatura, viene arrestata e torturata in diretta in televisione dalla polizia segreta di Pinochet.Dieci anni dopo, Karin, la regista incontra i genitori della ragazza che le portano una fotografia della figlia. Dove è stata scattata? E che cosa racconta? Inizia così il suo viaggio attraverso il Cile, nel quale la voce narrante si contrappone ai filmati familiari, immagini del passato, video, ricordi; tracce che rivelano una storia collettiva, la memoria della dittatura cilena ancora profondamente irrisolta e la scoperta di un passato nella vita dei genitori che la regista ignorava.

UN ARCHIVIO è anche Aboliçao, girato nel 1988 in occasione del centenario dell’abolizione della schiavitù in Brasile da Zozimo Bulbul (1937-2013), regista, attore, produttore, attivista, riferimento fondante nel cinema black e della diaspora brasiliano, a cominciare dal suo corto, Alma no Olho (1973) ispirato al libro del Black Panther Eldrige Cleaver, Soul on Ice, e dedicato a John Coltrane. Nato e cresciuto a Rio, attore nei film del Cinema Novo, Zozimo Bulbul rivendica nel suo lavoro, film e organizzazione culturale i legami il panafricanismo combattendo la rimozione dell’Africa dall’immaginario e dal quotidiano brasiliani.
Aboliçao tra archivi e interviste ripercorre la storia del Brasile da un diverso punto di vista, quello degli schiavi, dei neri, mai presenti nelle versioni ufficiali con la propria voce. Oggi, di fronte al razzismo di Bolsonaro – e dei suoi omologhi nel mondo – è ancora più prezioso.