Sette anni come responsabile del dipartimento curatoriale del New Museum, con alle spalle un fitto programma espositivo e mostre come Carsten Höller: Experience, Urs Fischer, NYC 1993: Experimental Jet Set, Trash and No Star: è Massimiliano Gioni (Busto Arsizio 1973), già curatore della 55. Biennale di Venezia e fresco di promozione a direttore artistico del museo newyorkese, che questa volta parla di Here and Elsewhere. «Abbiamo cercato di focalizzarci sui mondi arabi, identificando un filone all’interno del percorso e cercando di fuggire dallo stereotipo orientalista».

«Here and Elsewhere» s’inaugurata in un momento di emergenza politica, riferendoci esplicitamente a quello che sta succedendo in Palestina e Siria…

Sì, tristemente l’emergenza o le emergenze sono lì da tempo. È sempre difficile capire se la storia abbia un effetto immediato sull’opera degli artisti, oppure no. L’idea che mi sono fatto, cercando di evitare gli stereotipi, è che ci sia una sorta di inflazione di rappresentazione mediatica. Nel film di Godard (che dà il titolo alla mostra), ad un certo punto il regista inquadra un ragazzo palestinese e lo definisce «povero milionario delle immagini». È povero, però è ricco di immagini in cui è stato filmato: è stato oggetto dello sguardo di qualcun altro. C’è una tale attenzione da parte dei media che spinge gli artisti reimpossessarsi della rappresentazione. Molti parlano in prima persona singolare e questo mi sembra che sia un elemento importante che finisce per accomunare parecchi lavori. È anche un aspetto di costruzione dell’esposizione, che non è semplicemente la grande rassegna di arte araba: non potrebbe mai essere contenuta in un museo come questo. Ma, in particolare, è la mostra di artisti provenienti da quei mondi, di origine o con dei legami con il mondo arabo, che hanno un particolare atteggiamento critico nei confronti dell’immagine, della storia ufficiale e della narrazione mediatica.

Nell’impossessarsi della propria immagine ha un ruolo importante la memoria, anche attraverso la valorizzazione degli archivi, come vediamo nel lavoro di Akram Zatari, nelle fotografie d’epoca di Van Leo e Hashem El Madani, nel progetto curatoriale di Ala Younis.

Questo è un intero sottotesto della mostra. A Beirut esiste quell’istituzione incredibile che è l’Arab Image Foundation, dedicata all’idea del recupero dell’immagine e della storia di molti paesi arabi. Un unicum che ha avuto anche una grande influenza sul lavoro di diversi artisti ed è stata realizzata dagli artisti stessi: Akram Zatari, Walid Raad, Fouad Elkoury. Del resto, la tendenza all’archivio l’abbiamo vista anche nel lavoro di molti autori occidentali, è presente pure altrove. Nel mondo arabo, anzi nei mondi arabi, assume però un’urgenza, una significanza diversa perché la fotografia, in un certo senso, è intimamente collegata al colonialismo. Gran parte del lavoro fatto dall’Arab Image Foundation è stato quello di scoprire situazioni in cui erano gli artisti arabi, o locali, a rappresentare loro stessi e non lo sguardo coloniale. Un’operazione che ha una relazione complessa con l’orientalismo, ovvero con l’idea di un’immagine fotografica che è pittoresca, ma anche coloniale, ponendo le condizioni per un’invasione.

In mostra i linguaggi sono tanti, non ci sono solo la fotografia e il video. Si nota una contaminazione con il teatro, il cinema, la scrittura, la musica…

Da una parte, questa è una mostra contemporanea, quindi ci sono tutti i media. Fotografia, video, insieme alla scrittura e alla pittura. Abbiamo voluto che questo fosse chiaro fin dall’inizio, per evitare l’immagine pittoresca della calligrafia su cui giocano alcune rassegne. Il mondo arabo è contemporaneo più del nostro. Volevamo mostrare una multiculturalità che è tipica, qui a New York, come a Berlino e così via. D’altra parte, la fotografia e il video sono forse i due medium preponderanti, perché contengono nel loro codice genetico il problema della verità. Da sempre a questi linguaggi riconosciamo l’autorità sul vero. Così, molti artisti hanno focalizzato il loro interesse sulla relazione di immagine e verità: partono dalla fotografia e dal video per criticare questi stessi medium, per esporne i limiti o per proporre la loro verità.
Guardando al ruolo dell’artista come testimone, è chiaro che il reportage, il documentario diventino generi preferenziali. Abbiamo voluto però sottolineare anche pratiche come il disegno e la scrittura. A me interessa molto come, ad esempio, nei disegni di Anna Boghiguian fatti in Egitto nel 2011 durante la rivoluzione, o meglio le rivoluzioni, da una parte si possano riconoscere immagini di cronaca come Tahrir Square, i dimostranti, la polizia ma, dall’altra, ciò a cui assistiamo è la visione dell’artista che esplora se stessa per comprendere il mondo. Questo credo che sia, in fondo, il tema centrale della mostra in cui gli artisti ci ricordano la parzialità e la non oggettività delle narrazioni ufficiali. Per farlo devono denunciare, fin da subito, anche la parzialità del proprio punto di vista. Il disegno è intimamente legato all’interiorità e immediatamente enuncia la soggettività.

L’ultimo anno, negli Stati Uniti, si è caratterizzato per un forte interesse verso gli artisti arabi con mostre come «She who tells a story» al Museum of Fine Arts di Boston, il FotoFest di Houston…

È molto cresciuto l’interesse per il mondo arabo. Credo che l’apice si sia raggiunto all’ultima Documenta, ma ci sono state anche tante altre esposizioni. Inoltre, c’è stato un incremento di attività da parte dell’occidente in oriente: biennali, spazi d’arte che esistevano già prima, ma che di colpo sono diventati più visibili, gli artisti viaggiano di più e sono inclusi in mostre internazionali. C’è stato un incremento di visibilità e conoscenza da parte dell’occidente, come c’è il fatto oggettivo che si lega, a essere realistici, a un’esplosione economica nel Golfo.
Personalmente ero un po’ stanco che molti di questi artisti fossero relegati nelle biennali. Le biennali sono meccanismi strani che, a un certo punto, diventano un genere a sé. Quando ho curato la mia, mi sono convinto che non avesse senso ospitare un contingente arabo per far vedere che lo conoscevo. Ho trovato che fosse più interessante pensare a una mostra a New York che cercasse di presentare gli scenari in maniera più organica. Così nel 2012, nel corso della ricerca per la Biennale di Venezia, in contemporanea ho aperto un folder nel mio computer che ho chiamato con le iniziali A.S. che indicavano «arab show». Per scaramanzia non scrivo mai i titoli delle mostre…